Politiche

A che genere di università pensiamo quando parliamo di iscrizioni, percorsi di studio e carriere? Partendo da una sollecitazione delle rettrici, la Crui istituisce una commissione per raggiungere un maggiore equilibrio tra donne e uomini negli atenei

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Foto: Unsplash/ Museums Victoria

Nel 2015, traendo spunto da un concorso di bellezza organizzato in un noto ateneo, le rettrici italiane (6 donne, contro quasi 80 uomini) firmarono una lettera aperta dal titolo A che genere di università pensiamo per sollecitare una riflessione sul ruolo delle università, come istituzioni che, nutrendo il pensiero critico, “dovrebbero offrire gli strumenti per 'destrutturare forme precostituite di adesione” a stereotipi nei quali “si avverte come prevalente l’aspetto costrittivo del ruolo della donna”.  

A distanza di 5 anni, non sembra si registrino, fortunatamente, altri casi di atenei che organizzano “Miss Università”. Ma gli stereotipi evidentemente devono pur resistere, se il numero delle rettrici italiane è rimasto pressoché invariato (restano 7, a fronte di 77 rettori) e se il rapporto SheFigures 2018, pubblicato dalla Commissione europea, pur registrando qualche trend positivo, sottolinea ancora che, in tutta Europa, nelle istituzioni di ricerca le donne subiscono condizioni di lavoro più precarie degli uomini, sono meno pagate, faticano a raggiungere posizioni apicali nella carriera, a essere riconosciute come autrici di invenzioni brevettabili e persino a trovare fondi per le loro ricerche.

Ostacoli culturali e strutturali

L’allarme è stato rinnovato anche nel 2020, nella Comunicazione della Commissione europea A new era for R&I - COM(2020)628, che ha precisato come, nonostante la continua attenzione alle politiche di parità nel settore ricerca e innovazione da parte delle istituzioni europee, solo il 24% delle posizioni apicali nel settore dell’alta educazione siano occupate da donne.

In linea con la tendenza europea, anche in Italia, pur registrandosi un aumento del numero delle donne che intraprendono il percorso universitario, la presenza femminile, nel passaggio dalla fase di formazione a quella di avvio della carriera accademica, si assottiglia, con un’inversione del rapporto tra i due generi al progredire verso le posizioni di vertice. Esistono tuttora ostacoli culturali e strutturali che determinano, da un lato, l’abbandono della carriera accademica da parte delle donne e, dall’altro, la persistenza nelle istituzioni universitarie di una forte segregazione sia in senso orizzontale che verticale, con alcune aree e alcune posizioni in cui domina un solo genere – non solo tra ricercatori e docenti, ma anche nel corpo studentesco e nel personale tecnico, amministrativo e bibliotecario.

Quanto agli organi di governo degli atenei italiani, a parte il dato relativo al numero delle rettrici sopra segnalato, da uno studio della Commissione di genere della Società italiana di economia (Sie) risulta che, nel 2014, le donne rappresentavano solo il 24% dei membri dei consigli di amministrazione e il 25% dei componenti dei senati accademici, nonostante la presenza, in molti di quegli stessi atenei, di norme volte a incoraggiare o addirittura a garantire l’attuazione del principio di pari opportunità.

Ancora, sempre secondo lo studio della Sie, nel 2017 le direttrici di dipartimento erano il 18,5% del totale, mentre ben 27 atenei non avevano alcuna direttrice nei loro 130 dipartimenti. Il che è ampiamente dimostrato dalle ricerche dedicate all’argomento e, è bene ricordarlo ancora una volta, non produce conseguenze solo su chi è direttamente oggetto di discriminazione, ma si traduce in una perdita per la società nel suo complesso: da una parte viene disperso l’investimento in formazione delle donne che abbandonano la carriera universitaria, dall’altro non viene raccolto il capitale umano finale che quei percorsi di carriera avrebbero prodotto.

Una commissione di genere alla Crui

In un simile contesto, assume un’importanza e un significato particolare l’azione portata avanti di recente dalla Conferenza dei rettori delle università Italiane (Crui), cioè dall’associazione che, dal 1963, rappresenta di fatto, nelle sedi istituzionali, le università italiane statali e non, ponendosi quale interlocutore di riferimento, in grado di influire concretamente sul sistema universitario.

Sulla scia del confronto nato dalla lettera aperta sottoscritta dalle rettrici, la Crui ha istituito un tavolo di lavoro – dal 2020 trasformato in commissione – con l’obiettivo di accompagnare gli atenei verso un riassetto degli equilibri di genere. E se si considera che le commissioni Crui attualmente operative sono solo 8 (di cui 7 coordinate da uomini), si ha un’idea della priorità che il tema sta assumendo nell’agenda della conferenza.

Non è secondario, nella definizione di questa strategia, il ruolo delle istituzioni comunitarie e in particolare della Commissione europea, che da anni supporta le istituzioni di ricerca impegnate ad attuare politiche di genere con appositi programmi e che da ultimo, nel presentare la Gender equality strategy 2020-2025, ha sottolineato la necessità che le istituzioni della ricerca sviluppino modelli inclusivi, ponendo espressamente l’adozione di gender equality plans come condizione necessaria per l’accesso ai fondi di ricerca, a partire dal 2021.

Il gruppo di lavoro Crui si è riunito per la prima volta a gennaio 2018, individuando una serie di linee d’azione prioritarie. Tra queste:

  • la riflessione su un linguaggio rispettoso delle diversità e corretto dal punto di vista del genere, a fronte di un livello di comunicazione spesso inadeguato;
  • l’elaborazione di strategie per l’implementazione dell’accesso delle ragazze alle carriere nel settore della scienza, tecnologia, ingegneria e matematica (STEM), quale risposta a uno stereotipo che vuole ancora le donne non all’altezza dell’area delle discipline scientifiche e tecnologiche;
  • l’adozione di linee guida che consentano a tutti gli atenei di dotarsi di un bilancio di genere, al fine non solo di fotografare la situazione effettiva delle persone (studenti, docenti, personale tecnico-amministrativo) che lavorano nell’università, ma soprattutto di programmare, ove se ne evidenzi la necessità, azioni specifiche volte al perseguimento dell’equilibrio di genere, nonché di verificare l’efficacia di queste ultime;
  • l’adozione di regole che garantiscano una parità effettiva negli organi di governance degli atenei, analogamente a quanto accade negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate e nelle società pubbliche.

Sul piano degli effetti, l’azione della commissione Crui si traduce dunque sia all’interno, in linee d'indirizzo e raccomandazioni rivolte agli atenei associati, sia in un’azione consultiva rivolta all’esterno – innanzitutto al Governo e al Parlamento –, attraverso la formulazione di proposte normative in risposta a eventuali, specifiche criticità. Raccordo con le istituzioni, da un lato; promozione, indirizzo e coordinamento dell’azione dei singoli atenei, dall’altro.

Primi timidi, ma incoraggianti risultati

Dopo tre anni di attività, qualche timido, ma incoraggiante risultato inizia già a registrarsi. Il numero di atenei che hanno adottato un bilancio di genere è triplicato, si moltiplicano iniziative volte a un uso più consapevole del linguaggio e nell’ultima finanziaria sono stati introdotti (con norma di formulazione piuttosto oscura, ma la perfezione non è di questo mondo) meccanismi premiali in favore degli atenei che si dimostrino più virtuosi nell’attivazione di corsi di studio sulle questioni di genere.

Molto, però, resta ancora da fare. In particolare, nel prossimo futuro si tratterà di capire come questo indirizzo politico che va maturando verrà recepito a livello locale, nei singoli atenei, specie quando si chiederà loro di destinare concretamente parte delle risorse finanziarie e non a iniziative per la parità di genere, di modificare gli equilibri nella composizione degli organi di governo o di agire sul sistema di reclutamento in modo più rispettoso delle pari opportunità.

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