Politiche

L'Italia spende molto meno, tra la metà e i due terzi, di Francia e Regno unito contro la violenza di genere. E con criteri poco trasparenti. Alcune idee per superare le attuali incertezze

Fondi opachi. Risorse pubbliche
e i criteri di attribuzione

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Foto Flickr/kiki follettosa

Il primo agosto di quest'anno è entra in vigore la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa, ratificata da 14 paesi, tra cui l’Italia. Il nostro paese è arrivato a questo appuntamento con un importante compito assolto, giusto in tempo. A metà giugno infatti la Presidenza del consiglio dei ministri ha emanato il decreto di riparto delle risorse finanziarie previste dal Decreto Legge 93 del 2013 (ora Legge 119/2015), conosciuto come “Decreto Femminicidio”. In altre parole ha stanziato i fondi previsti sugli anni 2013–2014 per sostenere l’azione di prevenzione e risposta alla violenza sulle donne, con un ritardo di circa un anno dall’uscita del decreto stesso.

Di quanti soldi stiamo parlando?

Il Decreto 93 prevedeva lo stanziamento di 10 milioni di euro per il 2013, 7 milioni di euro per il 2014 e 10 milioni annui dal 2015 in avanti. I soldi per il 2013 e il 2014 sono stati prima confermati dal Decreto della Presidenza e poi diminuiti di 550.000 euro circa nel documento di intesa sancito in Conferenza Stato–Regioni. Le risorse sul 2015 saranno invece da negoziare nella prossima legge di stabilità, quindi non sono certe. Complessivamente sono dunque disponibili 16,5 milioni di euro.

Quando le cifre delle scelte politiche hanno molti zeri è difficile capire a colpo d’occhio se si tratta di un’abbondante fetta di torta o di poche briciole. Il confronto con altri paesi è utile in questo senso per dare delle coordinate: la Francia stanzia per il suo piano di prevenzione della violenza 66 milioni di euro in tre anni e il Regno unito circa 50 fino al 2015. Alla grossa l’impegno italiano si colloca tra la metà e i 2/3 rispetto ad altri Paesi comparabili al nostro e a fronte di una situazione di partenza peggiore: nel nostro Paese ad esempio i posti letto disponibili in case rifugio sono 453 contro i 1729 in Francia e 3577 nel Regno Unito. In sintesi stiamo parlando di risorse insufficienti e, guardando al trend degli ultimi anni, sempre in bilico tra decreti attuativi, leggi di stabilità, ritardi amministrativi. Ma ci sono, ed è comunque una buona notizia.

Come verranno spesi?

Le risorse sono ripartite tra le regioni e le Provincie autonome, allocate secondo criteri demografici e presenza di strutture e servizi anti-violenza. Il 33% del fondo verrà allocato per nuovi centri anti-violenza, che dovrebbero dunque aumentare la disponibilità di posti in case rifugio e strutture di ascolto e supporto. Diverse critiche sono state già espresse in merito da parte della rete dei Centri Anti-Violenza che oltre a lamentare la scarsità di risorse, temono una distribuzione su nuove strutture con criteri “politici”. Resta che le strutture attualmente presenti in Italia siano insufficienti e quindi risorse che possano sviluppare nuovi servizi siano necessari. Il punto allora è: come fare perché tutte le risorse previste siano spese bene? E un secondo tema che resta a prescindere dalla destinazione dei fondi è: quali regioni stanzieranno davvero, come previsto dal decreto di riparto, risorse aggiuntive a quelle messe a disposizione a livello nazionale?

Alcune proposte per un uso efficace

Prima che tutta la macchina amministrativa tra Stato, regioni e privato sociale si metta in moto per spendere questi 16 milioni, si dovrebbe prevedere che il sistema di monitoraggio e valutazione sull’uso dei fondi sia online, con dati in formato aperto, aggiornati regolarmente dalle amministrazioni coinvolte, accessibili a tutti e da tutti verificabili. Del resto il governo ha già dato prova che questo sia possibile anche su enormi e complessi flussi finanziari con la piattaforma di opencoesione. Dunque si può fare e, fatto una volta, servirebbe per tutti i successivi stanziamenti, consentendo la costruzione di una serie storica importante per il nostro paese che manca in vari campi di statistiche di genere.

Lo strumento auspicato dovrebbe inoltre prevedere un sistema di controllo su concorsi, appalti e contrattualistica che renda trasparente ogni fase di attribuzione dei fondi ad enti privati che gestiranno i centri e ugualmente un sistema di mutua accountability tra attori pubblici e privati coinvolti. La comunità nazionale dei dati aperti così come le realtà del monitoraggio civico attive in Italia potrebbero certamente sostenere lo sforzo che venisse intrapreso dalla Presidenza del consiglio, dal Dipartimento pari opportunità e dalle regioni e si potrebbero prendere a modello per il suo sviluppo le migliori soluzioni esistenti di budget-tracking a livello europeo, chiamando a raccolta sociologhe, economiste, informatiche, amministratrici.

Cosa succederà se questo strumento di monitoraggio non viene predisposto ora? Succederà che sarà complesso tracciare l’uso di questi fondi, come è complesso seguire ad esempio la spesa del Piano di azione e coesione, anch’esso programma nazionale ad implementazione regionale. Che si avranno a disposizione solo le relazioni redatte dalle regioni per il Governo su base annuale, le quali - con ogni probabilità - non saranno comparabili tra loro, immediatamente accessibili, né facilmente consultabili. Dalle stesse relazioni non sarà facile nemmeno verificare quante risorse aggiuntive ogni regione abbia destinato alla violenza, con il rischio di non poter dare una valutazione d’impatto complessiva dell’intervento. Succederà che, in sintesi, l’intervento sarà opaco, poco prevedibile, non valutabile e quindi più a rischio di inefficienze.

Oltre gli strumenti, una visione

Si dirà che uno strumento di monitoraggio non è tutto, che non si sostituisce alla capacità degli individui di agire per richiedere trasparenza, alla volontà di organizzazioni e gruppi di partecipare alla definizione di interventi puntuali e diffusi di contrasto alla violenza. Ed è certamente così, ma resta il primo passo, indispensabile come in molti altri campi in Italia, al quale poi certamente aggiungere altre azioni di rafforzamento istituzionale, dialogo con la società civile, sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Il tutto infine potrà raggiungere un senso più compiuto in presenza di un Piano d’azione nazionale contro la violenza (che l’Italia ancora aspetta), che contenga obiettivi di risultato a fronte degli stanziamenti economici.

Solo esprimendo un target su quantità e qualità del servizio offerto e al contempo con una raccolta dati puntuale e regolare sui casi di violenza (che ancora oggi il nostro Paese non ha) sarà possibile uscire dalla retorica, dall’emergenza e dalle misure precarie e provvisorie. Solo così le diverse articolazioni dello Stato che a livello nazionale e locale contribuiscono a prevenire e contrastare la violenza sulle donne potranno trovare una piattaforma di coordinamento delle azioni messe in campo.

Solo così si consentirà a cittadine e cittadini di valutare i propri amministratori anche sulla base dell’impegno profuso per l’uguaglianza uomo–donna e di sentirsi parte di uno Paese che innanzi tutto informa sulle scelte che compie e sa valutare le proprie politiche.