Vite libere
nel carcere dell'Iran
Goodbye, di Mohammad Rasoulof. Una separazione, di Asghar Farhadi. Un cinema che parla delle donne iraniane, del loro dolore e assillo per la libertà. E artisti che pagano per questo. Li abbiamo incontrati al festival "Asiatica", in tasca un biglietto aereo: per la prigione
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E’ un pomeriggio di sole ottobrino di una lunga bonaria estate romana. In un bel giardino accanto a villa Borghese un giovane uomo di 38 anni scherza, mangia il gelato, si guarda intorno. E’ un regista di successo. Ha in tasca il biglietto aereo per il prossimo viaggio.
Destinazione: Teheran. Indirizzo: carcere. Mohammad Rasoulof, autore di Goodbye, ha deciso di tornare e di scontare la sua condanna definitiva a un anno di reclusione. Ai trepidanti amici italiani che gli consigliano di aspettare tempi migliori, spiega che a Roma non sarebbe più se stesso, non avrebbe nulla da dire. Il suo caro amico e maestro Jafar Panahi ha fatto la medesima scelta: sconta sei anni di reclusione e venti d’interdizione dall’attività creativa per propaganda contro il regime. Evidentemente i mullah si attendono lunga vita al potere.
Sta per ora in un limbo, invece, Asghar Farhadi, anche lui a Roma negli stessi giorni per merito degli incontri di Asiatica film mediale, lo straordinario festival diretto da Italo Spinelli. Il suo film, Una separazione, è al momento nelle sale italiane. Miracolosamente indenne dalla giustizia del suo paese, spiega, con l’autoironia degli spiriti forti, che fino ad oggi l’ala radicale del potere, che vuole molti all’indice, ha pensato che lui narrasse piccole storie di vita quotidiana. Ora, però, il successo all’estero comincia a insospettire.
Incontro anche Shirin Ebbadi, la famosa avvocata e premio Nobel per la pace del 2003. Ricordiamo insieme la morte di Neda durante il movimento dell’Onda verde del 2009 che aveva fatto sperare tutto il mondo, e il bel lavoro di Shirin Neshat, Donne senza uomini, Leone d’argento a Venezia, ritirato dalla regista magnificamente vestita di verde.
Ma soprattutto a lei premono le cifre: oltre al regista Panahi, sei documentaristi in carcere, quaranta avvocati, un numero di femministe così cospicuo che è difficile quantificarlo, quattro milioni di cittadini che vivono all’estero, 90 frustate all’attrice Mazieh Vafamehr per un film irrispettoso del regime. E poi la quantificazione oggettiva dell’inferiorità femminile: due testimonianze di una donna in tribunale ne valgono una di un uomo, le donne sono risarcite della metà dagli assicuratori in caso di incidenti.
C’è qualcosa di così esplicito e geometrico nell’odio per le donne del totalitarismo iraniano da somigliare all’antisemitismo nazista. Alla soluzione finale non si può giungere per le ovvie necessità della nazione, ma all’umiliazione totale sì, almeno per ora.
E’ delle donne, del loro dolore e del loro assillo per la libertà, che parlano gli artisti. Ed è per questo che pagano. Lo fanno con i ritmi lenti e le lunghe riprese di interni che ricorderebbero un certo cinema francese alla Rohmer se la leggerezza dolce dell’essere fosse mai per loro possibile.
Girano nel rispetto delle regole coraniche, paradossalmente ancora più pii nella finzione. In casa, con gli uomini della famiglia, al chiuso in compagnia femminile, a una donna è lecito togliere il velo. Ma il cinema è pubblico per definizione e le attrici sono velate sempre, anche quando riposano nel proprio letto. Immagino che a uno spettatore iraniano appaia palpabile la finzione e il tratto di irrealtà, di tributo all’autorità costituita, senza il quale non è consentito l’atto creativo.
Il film di Faradhi è, come dice il titolo stesso, la storia di una separazione. Di un marito dalla moglie, di una donna dal suo paese, di una classe colta da un’altra più bigotta e rassegnata? Certo è che la storia prende l’avvio da una richiesta di divorzio da parte di Nader (la moglie) che vuole espatriare. E’ battagliera, esplicita: andare all’estero è un’opportunità, un investimento sul futuro della figlia. Mille intrecci, di responsabilità, di conflitti, renderanno impossibile la partenza. Il tutto sotto l’occhio vigile di un giudice padre e padrone che dispone di ogni cosa senza intralci procedurali e senza avvocati a fargli da intoppo.
Anche in Goodbye una giovane avvocata vuole lasciare il paese. Ha lottato per i diritti umani, le hanno ritirato l’autorizzazione a esercitare la professione, sa di dover stare in guardia, due sue assistite sono state impiccate. Il marito è lontano, è lei che traina la complicata macchina che potrebbe portarli in salvo all’estero: “quando ci si sente stranieri nel proprio paese, tanto vale sentirsi stranieri altrove” – dice al mediatore che sta tentando, con lauta mancia, di procurarle i visti.
Durante tutto lo spettacolo, mentre la protagonista entra e esce in affanno dal suo appartamento, si sottopone a una perquisizione, sopravvive nell’attesa, una tartaruga tenta la fuga da una piccola vasca. Sale, cade, sale, trascina verso il bordo la mole della corazza con la forza delle zampette. Alla fine scavalca.
A proiezione ultimata, mentre si accendono le luci, Rasoulof, prima di rispondere alle domande, esordisce così: “volevo rassicurarvi subito sulla tartaruga: è viva e gode di buona salute”.
In questi giorni si celebrano i cento anni dalla nascita di Vittorio Foa. Parlando della sua giovinezza nelle carceri fasciste amava ricorrere a due battute fulminanti. La prima: “Io, in carcere, ero uno delle poche persone libere che ci fossero in Italia”. La seconda: “Non sono stato perseguitato dal fascismo, sono io che l’ho perseguitato”.
Gli iraniani che ho conosciuto mi sembrano fatti della stessa pasta. Robusta.