Politiche

I buoni introdotti della riforma Fornero sono ormai realtà. Ma le perplessità sono ancora tante: perché darli solo alle madri, senza incentivare una condivisione dei compiti di cura, e perché renderli alternativi al congedo di maternità, intaccandone il diritto? E può funzionare un sistema che ti da i soldi (pochi) e scappa (nessun controllo sull'uso dei buoni)?

Voucher per asili nido
Perché così non va

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giochi di bambini e colori - asili nido

Introdotti un anno fa dalla riforma Fornero, i voucher stanno diventando realtà, e da poco si è concluso il primo bando per accedere ai voucher per baby sitter o asili nido. I buoni assegnati sono poco meno di 3.800, ma vale la pena riflettere sulla validità di questo tipo di beneficio (1). Ammesse  a richiedere il contributo, le madri lavoratrici dipendenti del settore privato e le madri iscritte alla gestione separata Inps che tornano al lavoro dopo il congedo obbligatorio di maternità. Il bonus ammonta a 300 euro mensili per un massimo di sei mesi ed è concesso alla lavoratrice solo se questa rinuncia per lo stesso periodo ad usufruire del congedo parentale, previsto dalla legge 53/00 (2). Se diretti all’acquisto di servizi di babysitting, i 300 euro saranno consegnati alla richiedente sotto forma di buoni lavoro (voucher); se invece rivolti a sostenere il costo di servizi all’infanzia pubblici o privati saranno erogati dall’Inps direttamente alla struttura interessata. La graduatoria delle donne aventi diritto doveva tener conto dell’ordine di presentazione delle domande e dell’indicatore Isee fino a concorrenza delle risorse disponibili: 20.000.000 euro annui per il biennio 2013-2015. 

È di certo positiva la scelta di investire risorse nel sostegno ai servizi di cura, strumento fondamentale per la continuità occupazionale delle donne, essendo noto il legame diretto tra presenza e fruibilità dei servizi di cura, e partecipazione femminile al mercato del lavoro. Nelle stesse parole della legge 92/2012, il voucher è uno dei due strumenti cardine per “sostenere la genitorialità” (l’altro è il giorno obbligatorio di congedo di paternità) e vale perciò la pena proporre una riflessione di merito e di metodo su questo strumento, che accanto ai possibili benefici di breve periodo, comporta però alcuni aspetti controversi che non possano essere sottaciuti con l’alibi della sperimentalità del contributo, del tempo ridotto o del budget ristretto (3).

L’osservazione preliminare, che da sola rischia di affondare l’obiettivo del sostegno alla genitorialità, è che la misura è rivolta solo alle madri. Dopo decenni di dibattiti su conciliazione e condivisione, la conciliazione torna ad essere presentata come “un problema delle donne”. E la sua soluzione, laddove dipendente anche da necessità economiche, deve comunque passare attraverso scelte anche pesanti delle donne, nello specifico alla rinuncia ad un loro diritto (il congedo). 

Su questa ratio, gli aspetti controversi della misura sono: la contestualizzazione della scelta (finanziare direttamente voucher, in un momento in cui invece vengono tagliati i fondi a supporto dell’ampliamento dei servizi locali per l’infanzia); le caratteristiche e i requisiti di applicabilità del contributo, quali  l’alternatività dei contributi-voucher rispetto ai congedi parentali, l’equiparazione tra babysitter e strutture di cura dell’infanzia e la qualificazione del settore di cura come ambito per il “lavoro accessorio” (4).

Rendere la rinuncia al congedo parentale un requisito di accesso per la fruizione del contributo significa formalizzare il disincentivo al principale strumento offerto dall’ordinamento italiano per sostenere la genitorialità: il congedo parentale, quel periodo di astensione dal lavoro (parzialmente retribuito) volto a  favorire la presenza (alternativa) di madre e padre accanto al bambino, che ha la sua origine nella valutazione della rilevanza culturale ed umana di un’equa presenza dei genitori nella condivisione della funzione di cura e nella crescita dei figli. In un ordinamento giuridico non è concepibile che un provvedimento ponga come condizione per il godimento di benefici economici il disattendere un altro provvedimento in vigore, che fornisce diritti soggettivi e liberalità orientate allo stesso obiettivo (sostenere la genitorialità) e alla tutela del bambino – che dovrebbe essere la ratio superiore in questo ambito. Barattare il congedo con un corrispettivo economico denota una ratio precisa, ossia la volontà di favorire, in questo periodo, il ritorno al lavoro delle donne e non la permanenza col figlio, magari condivisa con il partner, che l’ordinamento garantisce tramite i congedi parentali. Si dirà che la copertura economica dei congedi parentali è bassa (30% dello stipendio) e che quindi non è conveniente prenderli. Ma lo stesso budget stanziato sperimentalmente per i voucher di cura poteva essere impiegato per innalzare, per la stessa platea di destinatari, il tetto di copertura dei congedi al 50%, o su una platea più ristretta anche al 70% (5). Si sarebbe sfruttata la sperimentalità della misura in un ottica diversa e più coerente con l’obiettivo dichiarato di “sostenere la genitorialità”. Si può temere, invece, che questa misura rappresenti un tentativo di vincere il rischio di dimissioni in bianco, ossia il favorire il ritorno immediato al lavoro delle madri,  per non “esasperare” i datori di lavoro che tendono ad associare alle “assenze per maternità” accanto ad un calo di produttività tutta una serie di stereotipi e pregiudizi che possono avere riflessi negativi di lungo periodo. Mentre il rischio delle dimissioni in bianco sarebbe combattuto in modo più coerente ed efficace rafforzando la normativa esistente e i controlli e non incentivando le donne ad assumere, in via cautelativa, i comportamenti “preferiti” dai datori di lavoro. 

Riguardo all’equiparazione tra nidi e baby sitter come destinatari di spesa dei voucher, va evidenziato come non si possa trattare di opzioni assimilabili. Indipendentemente dalla visione educativo-pedagogica assegnata, nel caso delle baby sitter di una modalità di cura di cui non esiste né definizione né regolamentazione, quindi di una professionalità non certificata e lasciata ad un mercato privato senza regole; nel caso dei nidi si tratta invece di strutture sottoposte a processi autorizzativi e controlli sanciti da normativa. Se da un lato il voucher affida alla famiglia la scelta del tipo di strategie di conciliazione  da adottare, dall'altro non può però agire nell’ottica della deresponsabilizzazione pubblica totale rispetto alla finalità e alle modalità di erogazione del sussidio. Nel momento in cui si attua una policy alimentata da denaro pubblico non può vigere il criterio dell’indifferentismo rispetto al suo utilizzo. Le opzioni proposte devono essere coerenti con gli obiettivi della policy e la sua funzione pubblica. Non è la stessa cosa sostenere con denaro pubblico il rafforzamento di servizi pubblici o convenzionati, disciplinati da normative e sottoposti a controlli oppure il ricorso a professionalità che esistono solo sulla carta. Se il nostro sistema potesse offrire lo stesso livello di servizio e di controllo dei risultati, la stessa “garanzia” per servizi resi da persone o strutture nel settore più delicato (la cura di affetti), il voucher sarebbe realmente uno strumento di liberalità. Allo stato attuale, invece, con il voucher si promuove l’uso di denaro pubblico da parte di privati per l’acquisto di servizi privati (che anche se “personali” sono di interesse collettivo) e l’indifferenza circa lo strumento (formale o informale, babysitter o nido) non rende un buon servizio all’ottica di oculata spesa pubblica a fini collettivi.

Nei paesi in cui il sistema di voucher funziona a regime, come in Francia, siamo di fronte a un sistema strutturato di servizi alla persona che rappresenta una linea di politica pubblica stabile, che offre garanzie di trasparenza, certificazione e individuazione di centri di responsabilità. E in cui il voucher è uno strumento che si inserisce all’interno di un piano di valorizzazione e investimento nei servizi alla persona che ha anche logici riflessi sul sistema fiscale. Non siamo certo di fronte a tentativi sporadici di impiego di fondi residui, come in Italia, in cui la concessione alle donne di voucher, temporalmente limitata, e pesantemente vincolata, presenta troppi elementi contraddittori per essere salutata come un segnale di investimento del paese sulle politiche familiari.  Si può ipotizzare, anche in questo caso nella misura una retro-finalità, ossia il tentativo attraverso l’adozione di buoni lavoro di incidere sull’emersione dell’occupazione nel settore di cura dei bambini (6). Ma in assenza di un sistema di certificazione della professione sarebbe comunque un tentativo parziale, che consentirebbe solo l’emersione di un “pagamento” e lascerebbe totalmente alla responsabilità del soggetto pagante tutto il resto (compreso il rischio di una scelta poco oculata). In  assenza di una regolamentazione della professione di baby sitter, l’unico soggetto certificatore della avvenuta prestazione e della relativa qualità è colei che accede al contributo e che firma il voucher di pagamento. In questo regime, quindi, come assicurarsi che  le somme erogate in voucher vengano realmente impiegate per servizi di baby sitting svolti da soggetti competenti e non da prestanomi? E ancora, come evitare che un assegno periodico di 300 euro sottoforma di voucher  - validati semplicemente dal destinatario del contributo - non possa informalmente configurarsi come stabile integrazione al reddito familiare? 

Questo interrogativo, si inserisce comunque nella generale perplessità di collocare i servizi di cura tra i servizi ammissibili al lavoro accessorio – anche così come riformato dalla legge 92/2012. In questo ambito non può funzionare la deresponsabilizzazione rispetto agli esiti finali del servizio incentivato, perché non si tratta di forniture di servizi qualificabili su base oraria (es: trasporto, idraulica ecc…) in cui la singola persona erogatrice del servizio non ha rilevanza rispetto al servizio reso. Nel caso della cura, la persona che eroga il servizio fa la differenza in quanto esercita una funzione di “sostituzione” del richiedente, e pertanto esige requisiti ben più rilevanti di quelli formali e procedurali per le generali forniture di beni e servizi. 

L’intervento tramite voucher così configurato più che parte di una strategia connotata da equità di genere, sembra un provvedimento estemporaneo e di breve respiro, che a fronte di uno stanziamento piccolo ma non troppo, adotta la via più rapida (erogazione di denaro su base  generalista) senza aver effettuato una valutazione ex ante di costi umani ed economici, benefici materiali e immateriali, rischi reali e potenziali. E rischia di annoverarsi tra le mille forme di contribuzione e incentivazione, che hanno utilizzato denaro pubblico in modo incoerente e non coordinato, senza porsi la domanda: ma c’è un’altra strada possibile? 

 

 Note

(1) L'11 luglio scadeva il termine per accedere ai contributi economici finalizzati alternativamente o all’acquisto di servizi di baby sitting, o di servizi per l’infanzia erogati da soggetti pubblici o privati accreditati, ai sensi dell’art. 4, comma 24 della legge 92/2012

(2) Questi contributi per baby sitter o asili sono regolati dal decreto del ministro del lavoro e dell’economia e delle Finanze del 22 dicembre 2012 e dalla Circolare Inps del 28 marzo 2013 n. 48

(3) In V. Cardinali La parità fraintesa. La riforma del mercato del lavoro e le donne, in corso di pubblicazione.

(4)  Cfr. V. Cardinali  Voucher di cura e congedi parentali: dalla Fornero una “concorrenza sleale”;  id. La conciliazione imperfetta: nidi e baby sitter  alla prova del voucher; id La parità fraintesa: il sostegno alla genitorialità nella Legge Fornero.

(5) Questi aspetti sono trattati in V. Cardinali, Voucher di cura e congedi parentali: dalla Fornero una “concorrenza sleale”, dove vengono riportati i conteggi e la simulazione. [Si tratta di un capitolo del lavoro citato nella nota 3. N.d.R  29/08/2013].  

(6) La prima versione del decreto, infatti, conteneva esclusivamente l’indicazione di voucher per baby-sitter a cui successivamente è stato aggiunto il riferimento alle strutture.