Grassofobia. Nel libro Anche questo è femminismo (Tlon), Chiara Meloni e Mara Mibelli, ideatrici del progetto Belle di faccia, si spingono alle origini della body positivity e dello stigma per il corpo grasso
Da quando ci occupiamo di fat acceptance e body positivity ci siamo trovate davanti diversi muri da abbattere: il più resistente e difficoltoso è sicuramente l'idea che la grassofobia non sia una vera e propria discriminazione. Il grasso viene percepito come una colpa, un fallimento personale e qualcosa di facilmente evitabile o eliminabile con la forza di volontà. Non solo, il body shaming e il bullismo verso chi è grassə vengono spesso considerati dalle persone come uno di quei casi in cui il fine giustifica i mezzi: se attaccando possiamo convincere qualcuno a cambiare il suo corpo, allora un po' di cattiveria è lecita.
Sono tutte resistenze che ci aspettavamo e a cui eravamo preparate, ma quello a cui non eravamo pronte è ritrovare queste stesse obiezioni anche negli ambienti femministi e dover legittimare la presenza dei corpi grassi nel femminismo intersezionale. In questo capitolo, che non pretende di essere esaustivo, cercheremo di spiegare perché combattere lo stigma del grasso sia una questione femminista.
Le origini femministe della body positivity: la fat acceptance
Nel 1972 un gruppo di donne grasse e lesbiche, capitanate da Judy Freespirit e Aldebaran (conosciuta ora come Sara Golda Bracha Fishman), fuoriuscì dalla Naafa (National association to advance fat acceptance) perché considerato troppo politico nei metodi e nell'ideologia dai vertici dell'associazione. Nasceva così The fat underground, l'anello di congiunzione tra l'accettazione dei corpi grassi e il femminismo.
Dove la Naafa chiedeva timidamente, The fat underground prendeva spazio, faceva irruzione e urlava le sue ragioni contro l'eteropatriarcato, l'establishment medico e l'industria delle diete, sostenendo che la cultura americana avesse paura delle donne grasse perché temeva il loro potere e in particolare la loro sessualità. Nel 1973 Freespirit e Fishman scrissero The fat liberation manifesto, un documento che rivendicava un trattamento equo delle persone grasse sul lavoro, nell'educazione e nel trattamento sanitario. Il gruppo ebbe una storia breve ma intensa, teorizzò in termini chiari l'oppressione e lo stigma del corpo grasso (in particolare il modo in cui quello femminile veniva desessualizzato) e ispirò la nascita di altri collettivi, pubblicazioni e gruppi lesbici e queer che hanno da allora continuato a diffondere le istanze della fat liberation.
Negli anni Novanta varie associazioni che si occupavano di disturbi alimentari, tra cui The body positive, raccolsero in parte l'eredità della fat acceptance: il loro duplice scopo era quello di rivendicare il diritto di ogni persona ad avere un'immagine positiva del proprio corpo e di denunciare il modo in cui gli standard di bellezza irrealistici giocassero un ruolo importante nell'insorgere di disturbi del comportamento alimentare e di una bassa autostima, soprattutto per le giovani donne. La parte sistemica del discorso – l'odio per il grasso e la marginalizzazione delle persone grasse – venne però messa da parte e appiattita, spostando l'attenzione su tutti i corpi in generale e concentrandosi maggiormente sulla relazione individuale con il proprio aspetto.
Perché "ama te stessa" fa così presa sulle donne?
Come ormai sappiamo, queste idee vennero poi intercettate dai brand che dagli inizi del Duemila iniziarono a venderci un nuovo prodotto: l'amore per noi stesse. Nasceva la body positivity mainstream per come la conosciamo ora, quella che dice "tutti i corpi sono validi", ma poi ne mette al centro sempre e solo uno: quello conforme, magro, non disabile e cis – con lui, tutte le sue insicurezze. Troviamo sintomatico il fatto che questo messaggio faccia così tanta presa, persino su donne che apparentemente rientrano o si avvicinano moltissimo allo standard, che trovano la loro taglia nei negozi, che non sperimentano la discriminazione sistemica verso i loro corpi. Questo accade perché il corpo delle donne è da sempre sotto assedio da parte dello sguardo maschile e perché fin da piccole veniamo bombardate da messaggi che ci ricordano quanto siano sconvenienti i nostri corpi in ogni loro manifestazione: dal ciclo ai peli, dalla cellulite alle rughe; tutte cose naturali che però dobbiamo nascondere.
La grassezza, soprattutto per una donna, è un peccato mortale, perché si allontana troppo dall'idea di una femminilità docile e ubbidiente. Non ci stupisce, quindi, che la moderna body positivity non sia diventata altro che un gruppo di donne magre che si rassicurano a vicenda sul fatto di non essere grasse, perché persino quel leggero gonfiore addominale e quel microrotolo di pelle pendula sono una terribile violazione rispetto a ciò che una donna dovrebbe essere secondo lo standard, ma soprattutto perché diventa un pensiero terrificante immaginare di essere ulteriormente vessate per il proprio corpo, e di subire anche una sistematica esclusione e discriminazione, oltre alle pressioni sociali.
Essere una donna grassa
Per spiegare la differenza tra i problemi di immagine corporea e lo stigma del corpo grasso, troviamo efficace ricordare che le insicurezze e il body shaming per le persone grasse, e in particolare per le donne, sono solo la punta dell'iceberg: sotto la superficie si nascondono cose molto più profonde, perché l'odio per il grasso è radicato nella nostra società e, unito alla misoginia, diventa un pericoloso coacervo di stereotipi e pregiudizi.
Partiamo da qualcosa di piccolo e che ci riguarda da vicino: l'odio online. Come sappiamo gli hater attaccano principalmente le donne. Quando però queste donne sono grasse ad attaccarle non ci sono più solo persone appartenenti a vari gruppi basati sulla misoginia (più o meno mascherata), ma anche quelle che apparentemente potrebbero sembrare ragionevoli: davanti ai corpi grassi quella ragionevolezza scompare e, impugnando la salute come scusa, arrivano a dire che la semplice esistenza di una donna grassa promuova l'obesità. Essere una donna grassa porta con sé diverse e vastissime discriminazioni, che proveremo a sintetizzare per ambiti di vita.
I social hanno un rapporto ambivalente con il corpo femminile. Spesso sanzionano e censurano le donne, e ovviamente quali sono i corpi femminili che subiscono maggiormente questa censura? Quelli non conformi: quelli neri, quelli disabili, quelli grassi, quelli trans.
Parlando di salute, sappiamo come il rapporto tra le istituzioni mediche e qualunque minoranza sia spesso violento, e sappiamo che le donne grasse non costituiscono un'eccezione: tra le esperienze più comuni ci sono diagnosi sbagliate e superficiali e commenti sull'aspetto fisico delle pazienti che esulano dalle considerazioni mediche.
Le discriminazioni sul lavoro, sia in fase di colloquio che, se si ha la fortuna di lavorare, sotto forma di pressioni per cambiare il proprio aspetto, sono all'ordine del giorno per le donne grasse: vengono considerate non solo pigre, stupide e poco professionali ma, in quanto donne, non abbastanza gradevoli allo sguardo per rientrare nell'idea di "bella presenza".
La desessualizzazione delle donne grasse, l'insistenza su quanto poco siano desiderabili, il bollare come fetish qualsiasi tipo di attrazione romantica o sessuale verso di loro rende ancora più difficoltoso denunciare violenza e molestie o riconoscerle come tali: dalle barzellette sulle donne grasse stuprate che "avranno sicuramente apprezzato il gesto", passando per i fatti di cronaca – come quello del giudice inglese che sostenne che una ragazza grassa si sarebbe dovuta sentire lusingata dalle molestie sessuali ricevute – fino ad arrivare al cyberbullismo riservato a Quantasia Sharpton – una donna nera e grassa che aveva accusato il rapper Usher di molestie, travolta da meme e tweet offensivi dai fan di Usher che non potevano credere che, tra tutte le donne disponibili, il loro beniamino avesse scelto di molestare proprio lei.
Rappresentazione del corpo grasso
La rappresentazione mediatica non è da meno quando si tratta di grassofobia: le donne grasse, quando esistono, sono lì solo come personaggi secondari e fungono da espediente comico, fonte di ridicolo o per spettacolarizzazione pietista. Pensiamo alle varie dame da compagnia goffe e desessualizzate, ai flashback che rappresentano il passato da sfigata della protagonista (rigorosamente interpretata da una donna magra che indossa un fat suit, un costume di scena che la fa sembrare grassa), alla cicciona con cui il protagonista è finito a letto "per sbaglio" dopo aver bevuto, al caso umano da guardare con curiosità morbosa e compassione, all'amica grassa che fa risaltare meglio l'avvenente protagonista della storia.
Raramente a una donna grassa viene concesso di essere il personaggio principale o di avere un arco narrativo che non sia appiattito sul suo peso e non parli di diete e dimagrimenti, o ancora meno che abbia dei risvolti romantici. A differenza degli uomini grassi, che pur essendo stereotipati riescono comunque ad accedere a un range ampio di storie e narrazioni, le donne grasse sono sempre relegate a personaggi secondari privi di una loro vita sessuale e sentimentale. Oltre a tutto ciò, nelle pubblicità, nelle riviste e nei reality show il corpo grasso femminile trova spazio solo come il "prima" di un "dopo" desiderabile e miracoloso raggiunto con l'ultimo ritrovato dell'industria delle diete, come monito della star che si è lasciata andare agli eccessi (di cui il grasso è simbolo), o come sintomo di una malattia da estirpare e di un'epidemia da sconfiggere.
Il mondo della moda non è da meno: la maggioranza dei brand non veste le donne grasse e, se lo fa, crea collezioni a parte che sono sempre più scarne e più deludenti di quelle principali, spesso vendendole solo online e guardandosi bene dall'associare al proprio marchio le immagini di corpi di donne realmente grasse. Queste narrazioni finiscono per plasmare irrimediabilmente non solo il modo in cui la società tratta e vede le donne grasse, ma anche il modo in cui noi vediamo noi stesse. Questo ci fa interiorizzare la grassofobia: il fatto che dire a una donna che è grassa sia considerato il peggior insulto possibile e l'esistenza di una distesa sconfinata di eufemismi per definire il corpo grasso femminile ci danno la misura di quanto collettivamente siamo a disagio con la grassezza.
Estratto dal saggio "Body positivity" di Belle di faccia, in Bossy, Anche questo è femminismo, Edizioni Tlon, 2021. Pubblicato per gentile concessione della casa editrice.