La raccolta di saggi Le dita tagliate, di Paola Tabet indaga i modi e le espressioni dei vari scambi che avvengono tra i generi, tra cui quello sessuale. Modi in cui le donne ottengono sì sussistenza. Senza però mai aver ottenuto il controllo delle risorse materiali, simboliche, o dei mezzi repressivi
Ho incontrato Paola Tabet per la prima volta nel 2000, o giù di lì. I suoi scritti – oggi rielaborati e ripubblicati in italiano per Ediesse nel testo Le dita tagliate (2014) – avevo dovuto scovarli qua e là, in varie lingue. Allora rincorrevo il filo frammentato delle analisi delle prostitute politicizzate, quelle donne, vicine alle persone trans e agli uomini gay, che dalla metà degli anni 70 hanno cominciato a pensare in modo critico alle relazioni di potere economico e sociale, e alla propria posizione al loro interno, e lo hanno fatto insieme alle lesbiche, ma anche alle casalinghe e a molte altre femministe (si vedano su questo anche i lavori di Gail Pheterson, amica di Tabet). E in effetti la chiarezza, la sfacciataggine della prostituzione fornisce al femminismo una notevole dose di lucidità, se la si riesce a sopportare. Proprio perché, come ci dice bene Tabet , se lo scambio di sesso contro vantaggio materiale diventa troppo esplicito, o troppo negoziabile e gestito dalle donne, qualcosa scricchiola nel generale sistema di scambi fra uomini e donne. Scambi che solo in apparenza sono simmetrici e complementari, tanto meno ‘naturali’ ci spiega Tabet. Le donne si occupano di attività legate alla procreazione, la cura di bimbi e adulti, il cibo, la casa, e anche della sessualità, a vantaggio degli uomini, e in cambio, è vero, ricevono di che vivere – ma il controllo generale delle risorse materiali, e simboliche, nonché dei mezzi di produzione, e dei mezzi repressivi, tendono a rimanere nelle mani degli uomini. C’è qualcosa, in queste relazioni, che assomiglia in modo impressionante ai rapporti di classe. Le donne, almeno per certi versi, stanno agli uomini come, storicamente, i proletari stanno ai capitalisti, come i servi stanno ai loro padroni, o i neri ai bianchi.
La lucidità di Tabet è a volte accecante perché affronta in modo diretto, ben documentato, e concettualmente coerente le modalità di questo controllo materiale. La stessa maniera diretta Tabet la mantiene anche di persona. Mai inquadrata, tipica di chi pensa intensamente da quasi 80 anni, evitando slogan e appartenenze. Una resistente, insomma, della critica femminista radicale, e in particolare di quell’approccio materialista che si è sviluppato, soprattutto in Francia a partire dagli anni '70, intorno al gruppo di Questions Féministes, con intellettuali quali Simone de Beauvoir, Monique Wittig e Christine Delphy.
Con uno strumento forse un po’ demodé, quello dell’antropologia comparata, Tabet ci conduce, un esempio dopo l’altro, ad identificare i tratti ricorrenti delle relazioni tra uomini e donne, attraversando le società tipicamente studiate dagli antropologi, lontane, di caccia e pesca, a cui pensiamo – a torto ci dice Tabet – come ‘non stratificate’. Poi, qua e là, Tabet torna a noi, al mondo occidentale e industrializzato: i modi in cui pensiamo quali attività siano più facili per una donna, per una ragazza o una madre, quali partner o atti sessuali siano più naturali o salutari, i modi in cui guardiamo alla prostituta che passa (o a quella che è in noi), alle migranti diversamente dai migranti, a una donna dirigente o armata, i modi in cui chiamiamo i genitali, o usiamo l’insulto di ‘puttana’.
Secondo alcuni, tutto questo, e molto altro del nostro modo di vivere i rapporti di genere, è mentalità da svecchiare, pregiudizio, forse nevrosi, in fondo incomprensibile, che si trasforma, per poi ritornare in modi inaspettati. Con Tabet invece si tratta, faticosamente, di riconoscere un sistema di sfruttamento delle risorse umane e creative delle donne, che parte dall’agricoltura di sussistenza, per arrivare ai punti che consideriamo più personali, intimi, o espressione della nostra identità e desiderio. Così, nel primo saggio (rielaborazione da La Grande Beffa del 2004), Tabet affronta il tema della sessualità, chiedendosi perché, sistematicamente, attraverso diversi contesti sociali, gli uomini offrano soldi o doni alle donne da cui ricevono (o pretendono) attenzioni sessuali – che siano amanti, segretarie, sex workers, fidanzate, o mogli – e invece non succeda quasi mai il vice versa. Nel secondo saggio, sulla riproduzione umana (versione originale del 1985), Tabet va a vedere in che senso la procreazione possa essere considerata una forma di lavoro, di produzione, che può dunque essere più o meno controllato, sfruttato, tecnologizzato. Nel terzo saggio (1979), Tabet si interroga sulle ragioni per cui alcune attività sono considerate maschili o invece femminili. Infine, nell’intervista a Mathieu Trachman del 2009, si chiede che fine facciano le proprie teorie alla luce del presente, dell’online dating, dei queers, dei divorzi. Le risposte che Tabet ci propone sono spesso sorprendenti, contro intuitive, a volte dolorose. In ogni caso i suoi strumenti tutti da afferrare, maneggiare, e riusare.
Paola Tabet, Le dita tagliate, Ediesse 2014, collana Sessismo e razzismo.