Politiche

A settant'anni dal voto alle donne, un bilancio del cammino tortuoso e complesso che le donne hanno fatto nelle istituzioni

Il difficile cammino delle
donne nelle istituzioni

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Foto: Flickr/Jaime González

Nel settantesimo anniversario del riconoscimento del voto alle donne in Italia è importante tracciare un bilancio del difficile cammino che le donne hanno fatto nelle istituzioni, un risultato del miglioramento del loro livello di vita e di istruzione e dell’eguaglianza delle condizioni di accesso in settori e in livelli professionali in passato loro preclusi. Si tratta di un percorso accidentato, fatto di luci e di ombre, che vede oggi una presenza massiva della componente femminile in ruoli di primo piano. La realtà si incarica tuttavia di smentire la rosea visione del raggiungimento di una piena e completa parità tra uomini e donne nell’assunzione di ruoli di responsabilità nella vita civile, economica e sociale, malgrado il sorpasso realizzato da tempo dalle ragazze nel campo dell’istruzione superiore e universitaria e una presenza spesso maggioritaria in settori professionali qualificati (scuola, sanità, professioni legali). Le criticità si annidano in pregiudizi e stereotipi che, malgrado i notevoli progressi realizzati, continuano a penalizzare le donne nell’organizzazione della vita familiare e professionale: negli  avanzamenti di carriera e nell’assunzione di ruoli di responsabilità, nei differenziali retributivi che a parità di mansioni svolte penalizzano la componente femminile, nelle difficili scelte cui ancora (solo) le donne sono costrette nella conciliazione tra responsabilità familiari e vita professionale.   

La piattaforma approvata dalla conferenza Onu di Pechino nel 1995 aveva indicato come obiettivo mondiale l’empowerment femminile attraverso la presenza più visibile delle donne in posizioni di potere e di una loro piena partecipazione ai processi decisionali. Dall’ultimo rapporto quinquennale della Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Cedaw) per il periodo 2009-2014 e dal contro-rapporto presentato dalle associazioni femminili sullo stato di avanzamento dell’obiettivo di empowerment emerge una dichiarazione di impotenza nel rapporto del governo, con la sola significativa eccezione della legge Golfo-Mosca (legge n. 120/2011) sull’obbligo di nominare fino a un terzo di donne nei consigli di amministrazione di società quotate in borsa; mentre le organizzazioni femminili hanno lamentato la diluizione degli obiettivi di pari opportunità e la stessa sparizione dell’omonimo ministero, istituito dal governo Prodi nel 1996, le cui competenze di recente sono state assegnate alla ministra per le riforme istituzionali. Sebbene la presenza di donne nei consigli d'amministrazione sia significativamente aumentata sino a raggiungere il 28% nel 2015, la quota di genere costituisce una misura temporanea, imposta per soli tre rinnovi consecutivi dei board, sull’assunto che l’esperienza positiva induca mutamenti culturali duraturi che rendano superfluo tale obbligo in futuro.

A oltre vent’anni dalla piattaforma di Pechino, la presenza delle donne nel mercato del lavoro e delle professioni segnala una crescente femminilizzazione accompagnata da perdurante segregazione, verticale e orizzontale. Soprattutto in mercati del lavoro altamente qualificati, come l’università e l’apparato giudiziario, nei meccanismi di accesso, nelle progressioni di carriera e nell’assegnazione  a incarichi di responsabilità è ancora presente il soffitto di cristallo nonché un significativo gender pay gap legato alle diverse opportunità di guadagno di uomini e donne in presenza di stereotipi circa la capacità di assumere ruoli di responsabilità e in assenza di misure di promozione di uguali opportunità  (ad esempio, solo 8 atenei su 73 impongono la presenza di una quota femminile tra i componenti dei consigli di amministrazione,  come previsto dall’art. 2 della legge Gelmini n. 240/2010, così come solo una percentuale minima di magistrate è chiamata a dirigere uffici giudiziari, malgrado la presenza femminile in magistratura abbia da tempo raggiunto il 50%).

In presenza di questi blocchi, e nella resistenza che incontrano i meccanismi di quota, c'è da chiedersi se la de-segregazione sia solo una questione di tempo che maturerà nell’arco di qualche generazione, o se invece non occorra mantenere alta l’attenzione sul raggiungimento di obiettivi di parità attraverso misure imposte e a carattere non volontario, che non hanno rovesciato gli stereotipi di genere. L’esperienza comparata insegna infatti che misure obbligatorie di promozione dell’eguaglianza di genere nella copertura di ruoli di responsabilità e nella partecipazione a processi decisionali sono necessari per innescare quei cambiamenti culturali e di costume indispensabili a favorire una democrazia realmente paritaria. Il diritto europeo, dopo la sentenza Kalanke del 1995 sulle quote di genere per l’accesso ai livelli professionali in cui le donne sono sottorappresentate, ha sancito la piena legittimità delle misure volte a favorire il riequilibrio di genere e ha sollecitato gli stati ad adottare misure promozionali in tutti i settori delle politiche pubbliche.  

In particolare, un ruolo esemplare dovrebbe essere svolto dal datore di lavoro pubblico, caratterizzato da comparti molto femminilizzati, con elevati livelli di istruzione, in cui l’accesso tramite concorso ha favorito la presenza massiva di donne. Le regole relative alla composizione di genere delle commissioni di concorso, l’obbligo di piani triennali di azione positiva, il riequilibrio di genere nei settori e livelli in cui c’è uno squilibrio superiore a 1/3-2/3  attraverso la preferenza legale per le candidature femminili, con specifico obbligo di motivazione  della scelta del candidato uomo e la previsione del blocco delle assunzioni quale sanzione per la sua violazione, restano tuttavia norme largamente ignorate. La stessa attività propositiva e consultiva svolta dai comitati pari opportunità previsti dai contratti collettivi, molto attivi in alcune realtà, è stata diluita con la loro conversione in Comitati unici di garanzia (Cug), con attribuzione di funzioni più ampie e indeterminate a parità di risorse (scarse o nulle). Ma soprattutto l’accento posto dalle riforme della pubblica amministrazione sul ruolo dirigenziale, combinato ai continui tagli ai bilanci pubblici, ha non solo svilito e condannato all’irrilevanza l’attività degli organismi di promozione di pari opportunità, ma – quel che è peggio – ha finito per favorire il ritorno a procedure opache e discrezionali di assegnazione a incarichi di responsabilità, in cui prevalgono meccanismi di cooptazione che non lasciano alcuno spazio al riequilibrio di genere.

Leggi lo speciale di inGenere per il settantesimo anniversario del voto alle donne