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A settant'anni dal riconoscimento alle donne del diritto di votare ed essere votate, una sfida doppia per le elette e le elettrici di oggi

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Foto: Flickr/Stortinget

Uno scandalo che non fa scandalo: così, nel 2012 nel nostro libro, Dove batte il cuore delle donne?[1], avevamo definito la situazione delle donne in politica in Italia. Uno scandalo di numeri (nel 2008 la media femminile tra senato e camera era un 19% che ci poneva al 54° posto nel mondo), uno scandalo che si consumava in un misto di non conoscenza e sostanziale indifferenza, a parte alcune avanguardie soprattutto femminili che hanno, in questi anni e con merito, tenuto accesa la luce sulla questione.

A distanza di quattro anni e, a dire quanto veloce e caotico sia lo scenario della politica italiana, i numeri mostrano che quello scandalo dal punto di vista numerico è sostanzialmente archiviato: nel 2015 l’Italia ha raggiunto il 32° posto nel mondo (Inter-parliamentary Union, 2015), dunque ne ha scalati più di 20 e, nell’Europa a 28 è al decimo posto, per merito di quel 31 per cento, media di elette tra camera e senato. 

Non solo: nelle tornate amministrative degli ultimi anni, grazie al combinato disposto di una maggiore sensibilizzazione al tema, di appositi meccanismi legislativi di riequilibrio della rappresentanza - ovvero la doppia preferenza - e a un consistente numero di pronunce giudiziarie, si è fatta strada una dimensione paritaria che non ha precedenti nel nostro paese e di cui sono specchio non poche giunte comunali 50 e 50, e la crescita delle elette negli enti locali dall’11 per cento al 28,3 del 2015 (Openpolis).  

Pochi anni, dunque, e davanti a noi si evidenzia una decisa inversione di tendenza avvenuta a una velocità inaspettata: basta questo a dire, a settant'anni dall’ottenimento del diritto di voto, che, almeno dal punto di vista delle elette, l’Italia si sia lasciata alle spalle il ritardo culturale che ha segnato sin dall’inizio la vicenda del voto femminile? La risposta che anticipiamo è negativa e pensiamo che, archiviato lo scandalo dei numeri, ci troviamo davanti a una difficile doppia sfida – una che riguarda le elette e l’altra che riguarda le elettrici – che va guardata nel suo concreto farsi nelle stanze della politica e nelle urne elettorali. 

La prima contraddizione

Il primo elemento di analisi è quello che riguarda la forte divaricazione tra elette e elettrici. Negli stessi anni in cui, così velocemente, si compiva un deciso balzo in avanti nella percentuale di elette e l’Italia arrivava al parlamento più ‘rosa’ della propria storia, continuava per converso l’inesorabile discesa del tasso di partecipazione politica, cominciata a metà degli anni ’70 e cominciata, non per caso, prima fra le donne che tra gli uomini. L’astensionismo, come registravamo nella nostra analisi del 2013, ha continuato ad aumentare e i dati raccolti da Dario Tuorto dell’Istituto Cattaneo di Bologna[2] confermano la tendenza: nel 2013 ha votato il 72,8% di donne con un gap rispetto agli uomini del 5%, e i segnali peggiori arrivano dalle aree periferiche del paese, dove le donne vivono una maggiore condizione di marginalità sociale e professionale. Sempre da Cattaneo arriva l’avvertenza di considerare l’astensionismo femminile non solo come protesta - un atteggiamento in qualche modo politico - ma anche come segno di apatia e disinteresse, come peraltro è sempre stato in Italia[3]. 

Se però si vuole un’immagine dirompente della crisi di legittimazione della politica si guardi il grafico, che riguarda Bologna, città storicamente a forte partecipazione femminile. 


Siamo dunque davanti a una palese contraddizione tra la crescente disaffezione all’esercizio del voto e la maggiore presenza di donne sulla scena della politica: del parlamento si è detto, una delle due camere è guidata da una donna, così due grandi città italiane, Roma e Torino, e non è più considerata eccezionale la formazione di giunte paritarie, (seppur con geografie differenti e con il Sud che fa più fatica). 

Come interpretare allora questo elemento, anche alla luce dei dati dello European Social Survey del 2015 che indicavano nelle italiane le uniche donne in Europa a mostrare nei confronti delle istituzioni politiche una maggiore sfiducia rispetto agli uomini? Tra le risposte possibili, due considerazioni: la prima è che questa aumentata presenza (e non dimenticando che alcune, come Laura Boldrini, svolgono anche una forte funzione da role model) non muta evidentemente la percezione da parte delle elettrici della politica come luogo distante e che non risponde ai bisogni. L’altra possibile risposta ha a che vedere con l’entità delle questioni e delle sfide di cui la politica deve o dovrebbe farsi carico: le migrazioni, la crisi economica, lo strapotere delle lobby finanziarie appaiono evidentemente su una scala così tanto più grande e complessa che la presenza o meno delle donne nelle sfere decisionali sembra fattore sostanzialmente irrilevante.

Se dunque la doppia sfida di cui dicevamo all’inizio riguarda, da un lato la presenza e la qualità dell’agire femminile in politica e, dall’altra, la partecipazione delle donne, si può segnalare un primo elemento di fortissima criticità, anche se mitigato da qualche timido segnale, che racconta di donne più giovani meno disinteressate e più sensibili al richiamo della partecipazione politica in tutte le sue forme.

Differenza, dove e come?  

È vero, che la presenza di donne segna una differenza di stile e di agenda e può spingere la propria ambizione a ripensare la politica? 

È a ben vedere l’eterna domanda davanti alla quale poniamo le nostre elette, quasi non bastasse il saldo positivo dei numeri - e dunque una maggiore equità della democrazia - a soddisfare la nostra aspettativa e a ‘giustificare’ il loro stare nelle stanze della politica. 

D’altra parte le elette, ancora oggi, devono fare i conti con quello che Gabriella Bonacchi chiama il faticoso “stare” delle donne dentro i luoghi della politica: il corpo femminile come corpo “speciale” che non riesce “ad occupare una porzione sufficientemente consistente della sfera pubblica, istituzionale” e che dunque deve conquistare un di più di autorevolezza e di peso[4]. Nel tempo della società dell’immagine, in aggiunta, c’è tutto il tema delle nuove declinazioni del sessismo e degli stereotipi sul corpo femminile. Il codice della bellezza, della seduzione, del materno, della cura affastellano dunque proiezioni anche contraddittorie che hanno come risultato il mettere in secondo piano competenze, specificità e differenze politiche.

Dalla parte delle donne che abitano le stanze della politica poi, non si può tacere il modo in cui molte giovani ci stanno: più a loro agio, certo, ma come se si facesse largo un ‘neutro’ che usa i codici del femminile in funzione rassicurante del maschile, in una modalità che sembra dimenticare - o rifiutare, come hanno mostrato a proposito delle cosiddette quote rosa le sindache a cinque stelle Raggi e Appendino - il portato dell’agire politico che le ha condotte fin lì. E se certo non si richieda alle donne di occuparsi di “cose di donne” in una riedizione dell’obsoleta "questione femminile", questa modalità "neutra"  finisce per non vedere - e per non agire politicamente - un punto fondamentale: uno dei temi del ritardo italiano, come segnalano moltissimi osservatori, riguarda questioni che hanno profondamente a che fare con la vita delle donne (lavoro, welfare, cura) ma che significherebbero una migliore qualità della vita per tutti. Un discorso che non vale solo per il nostro paese.

"Essere potenti insieme anziché uno contro l’altro" è la qualità e la differenza del femminile nella gestione del potere secondo la scrittrice Michela Murgia, eppure si può notare una larga percezione, oltre che un racconto pubblico diffuso per quanto stereotipato, della difficoltà delle donne di fare rete in politica, delle invidie e delle gelosie, della competizione rispetto allo sguardo maschile e al potere ancora detenuto dagli uomini[5].

Il tema della differenza femminile in politica, dunque, resta un terreno complesso da esaminare, in cui le stesse donne devono muoversi consapevoli del peso della stereotipia e del portato storico delle immagini del femminile, per essere via via più capaci di liberare energie e pensieri differenti in relazione agli stili della politica e all’agenda delle decisioni.

Una provvisoria conclusione

A settant'anni dall’emozionante conquista del voto alle donne, non si può negare che se è utile riflettere sulle criticità di questa conquista, è necessario anche considerare che uno sguardo troppo ravvicinato su cambiamenti molto rapidi può produrre una sorta di strabismo. La doppia sfida di cui abbiamo detto ci deve apparire un terreno aperto, una partita che abbiamo cominciato a giocare e che però donne (e uomini) elette ed elettrici dovrebbero affrontare - ed è un’ultima nota dolente - con un’adeguata cassetta di attrezzi culturali e politici. 

Leggi lo speciale di inGenere per il settantesimo anniversario del voto alle donne

Note
 
[1] Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia, Laterza, 2012
[2] D.Tuorto, La partecipazione politica delle donne in Italia dal dopoguerra a oggi, Istituto Cattaneo, 2016
[3] Dove batte il cuore delle donne? p. 13
[4] Dove batte il cuore delle donne? p. 49
[5] C’è una consistente riflessione, soprattutto femminista su questi temi che non si può ora approfondire: solo per significarla, ‘rubiamo’ ad uno scritto di Lea Melandri questo stralcio: "In assenza di un processo analogo di liberazione da parte dell’uomo, costretto comunque a recitare il copione di una virilità anacronistica, anche la più estesa presenza delle donne oggi sulla scena pubblica è destinata a ‘femminilizzare’ il mondo sulla base di modelli tradizionali, di donne-oggetto sessuale, madri e mogli irreprensibili, androgini o donne mascolinamente competitive".