In Italia, come in altri paesi, nel linguaggio delle leader di destra il femminismo diventa una distorsione per propagandare un attacco sempre più serrato ai diritti sessuali e riproduttivi e alla libertà di scelta. Alcune considerazioni, tra le pagine di Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica di Giorgia Serughetti (Donzelli, 2024)
Dal 16 ottobre 2024, con l'approvazione del Disegno di legge (Ddl) Varchi da parte della maggioranza di governo, la gestazione per altri (Gpa) è diventata un reato universale, con conseguente estensione a livello sovranazionale del divieto già esistente in Italia.
L’imposizione di un divieto assoluto di pratiche che richiederebbero una precisa regolamentazione per evitare una loro illegale mercificazione criminalizza le scelte consapevoli di gravidanza solidale per altri, riducendo le donne a minori incapaci di scelta, senza considerare la discriminazione che ne deriva per i bambini e le bambine così nate in modo illegittimo.
Il reato universale di gestazione per altri (ammesso che sia perseguibile nei 66 paesi in cui quest'ultima è legale) va ad aggiungersi a una serie di nuovi reati che il governo di destra sta moltiplicando, in una sorta di democrazia autoritario-repressiva che configura un attacco ai diritti, specie quelli delle donne e delle persone Lgbtqia+. Questo backlash condotto da un governo per la prima volta guidato da una donna rende quanto mai attuale il problema del rapporto irrisolto tra donne, cittadinanza e rappresentanza politica democratica su cui si interroga il libro di Giorgia Serughetti Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica (Donzelli, 2024).
Con la vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni politiche del 2022 e l’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Partito democratico si è creata una situazione inedita per l’Italia, che vede due donne alla guida della coalizione di governo e del maggiore partito di opposizione. Anche ai vertici delle istituzioni europee si trovano tre donne: Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo, e Christine Lagarde, Presidente della Banca centrale europea. Leadership femminili emergono nelle cariche apicali delle istituzioni in diversi paesi, più spesso a destra che a sinistra.
È forte la tentazione di leggere, in questa nuova fase, il superamento della storica sottorappresentazione femminile nelle assemblee elettive e nei luoghi decisionali e, dunque, della contraddizione tra la figura della donna e quella della cittadina, tra la gerarchia di genere nella società e l’uguaglianza di diritti. Viceversa, questa contraddizione, che gli studi teorici e storici hanno individuato alla base della costruzione dello stato democratico-liberale, è tuttora presente.
Troppo spesso, infatti, al successo di donne che conquistano posizioni di guida ai vertici di istituzioni e organi pubblici decisionali non corrisponde un avanzamento nella condizione della maggioranza delle donne, né sul piano economico-sociale né su quello culturale, specie se le leader sono di destra.
Esempi illuminanti in questo senso vengono dal nostro governo: le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinate alla creazione e alla gestione di nuovi asili nido sono state ridotte. Soprattutto al Sud, si allontana così l’obiettivo previsto di una copertura del 33%, con ovvie conseguenze negative sulla crescita dell’occupazione femminile, che vanno a sommarsi alla riduzione delle politiche promozionali. Sono cresciuti i lavori precari, specie nei settori in cui la presenza delle donne è più alta. Sono aumentate le tasse su prodotti per l'infanzia come pannolini e seggiolini, e si è dimezzato il numero di famiglie con figli che possono usufruire dell’assegno di inclusione che sostituisce il reddito di cittadinanza, mentre sono peggiorate sia sanità che la scuola pubblica. Il quadro diventa ancora più fosco se si considerano le discriminazioni nei confronti delle madri lavoratrici nel settore dei lavori domestici, per la stragrande maggioranza migranti, i cui diritti fondamentali sono più che mai sotto attacco.
In America come in Europa, grazie ai partiti della destra radicale, seppur guidati da donne, è in atto un vero e proprio backlash contro i diritti sessuali e riproduttivi, il diritto alla libertà di scelta e l’autodeterminazione del proprio corpo. Basti pensare agli attacchi del governo Meloni alla praticabilità dell’aborto tramite la promozione nei consultori della presenza ideologica di associazioni pro-vita, alle restrizioni antiaborto attuate in Polonia, alla sentenza della Corte Suprema americana Dobbs v. Jackson, oppure all’opposizione alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne condotta dai governi in Ungheria, Polonia, Turchia.
Gli attacchi al diritto all’autodeterminazione del proprio corpo minano alla base la cittadinanza delle donne, rendendo “debole” e persistente il loro essere cittadine ‘di serie b’, svelando, al tempo stesso, quanto sia formale la loro uguaglianza nelle democrazie liberali neopatriarcali. La persistente disuguaglianza di diritti civili e sociali non può non avere un impatto negativo anche sui diritti politici, sulla rappresentanza politica e la presenza delle donne nelle assemblee elettive e nei luoghi politico-decisionali, rispetto a cui i sistemi antidiscriminatori delle quote o le misure per il riequilibrio paritario della rappresentanza possono avere un effetto solo limitatamente correttivo.
Su questo aspetto è interessante notare che i numeri delle elette nel 2022 nel parlamento italiano mostrano un calo rispetto a quelli delle legislature precedenti, e che anche la percentuale di elette nel Parlamento europeo nel 2024 è in calo, per la prima volta in 45 anni (38,5%, rispetto al 39,8% del 2019).
È ancora più interessante considerare che, tra i grandi partiti, Fratelli d’Italia è quello che ha eletto meno donne nel Parlamento italiano (50 su 185 eletti). Nel Parlamento europeo, il gruppo dei Conservatori e riformisti (Ecr), a cui appartengono gli eurodeputati di Fratelli d'Italia e del partito polacco di estrema destra Prawo i Sprawiedliwość (PiS), ha visto un notevole calo nella presenza femminile (pari al 21,8% contro il 30,5% nella precedente legislatura).
Anche da questi dati appare lampante la dimensione di emancipazione individuale della leadership di Meloni all’interno di un partito fortemente maschilista, confermata dalla sua volontà di essere identificata al maschile. L’orgogliosa affermazione di essere donna in un mondo politico di uomini, unita al sottolineare autonomia individuale e forza femminili, in maniera molto simile a Marine Le Pen, servono a rimarcare doti eccezionali che spiegano la capacità di conquistare il potere. Comune a queste due leader, come ad altre leader di destra dell’Europa centro-settentrionale, è l’immagine di donne che sfidano la subalternità femminile i modelli di genere e familiari tradizionali – donne divorziate, non sposate, risposate, battagliere e indipendenti. È, insomma, la proposta di un modello di successo individuale e di emancipazione individualista che nulla ha a che vedere con un progetto politico collettivo. La divergenza tra il profili biografici e le politiche di difesa conservatrice del ruolo delle donne e della famiglia tradizionali non scalfisce la credibilità della leadership femminile, ed è anzi strumentale all’affermazione del programma politico, in quanto permette di respingere le accuse di maschilismo rivolte ai loro partiti.
Il proclama “sono una donna sono una madre, sono italiana, sono cristiana. Non me lo toglierete” rappresenta un programma identitario di genere, culturale, nazionale, religioso. Affermare di essere “una donna e una madre“ serve a ribadire un’identità basata sulla differenza biologica tra i sessi funzionale alla visione tradizionale dei ruoli di genere all’interno del presunto modello “naturale” di famiglia eterosessuale. È inoltre funzionale a ribadire il rifiuto di qualsiasi legittimazione delle famiglie omogenitoriali e l’opposizione alle richieste delle persone Lgbtqia+, le cui scelte sessuali dovrebbero rimanere rigorosamente nascoste nel privato, nonché la stigmatizzazione della cosiddetta “ideologia gender” e delle istanze femministe che mettono in discussione il binarismo delle categorie biologiche maschio-femmina.
La premier si addentra così in un terreno controverso per la riflessione femminista, in quanto allude ad argomenti elaborati dalla corrente femminista gender critical, che contesta il concetto di “identità di genere” nella sua non corrispondenza con l’identità sessuale, in nome di una riaffermazione delle identità di maschi e femmine come biologicamente determinate.
All’anti-femminismo tradizionale della destra radicale si sostituisce, secondo Serughetti, un uso semplificato e selettivo di idee controverse, con l’allusione strumentale a visioni, proprie di alcune correnti femministe, idonee a ribadire l’interpretazione essenzialista della differenza sessuale. Mentre riecheggia questi linguaggi e suona corde sensibili per alcuni settori di elettorato femminile, la retorica maternalista è in realtà un messaggio culturale propagandistico che cerca di distogliere l’attenzione dalle politiche peggiorative della condizione delle madri lavoratrici, specie delle più povere e vulnerabili.
L’esaltazione della identità materna evoca inoltre una figura protettiva della nazione (“la patria è la prima delle madri”, ha detto Giorgia Meloni), come appare evidente nell’insieme retorico di allarme demografico, appelli pro-natalisti e enfasi sui rischi di sostituzione etnica in nome di un vagheggiato ethnos omogeneo. In questo senso, il richiamo all’essere “italiana” e “cristiana” sottintende un messaggio nazionalista e populista che si alimenta di avversione verso le persone immigrate e di forme di razzismo, come la razzializzazione di violenze sessiste e violazioni dei diritti delle donne (il femonazionalismo di cui parla Sara Farris).
Mettendo in discussione il principio dell’uguaglianza dei diritti, le politiche delle leader femminili delle destre radicali europee, improntate al rafforzamento di discriminazioni e gerarchie sociali e di genere, minano le fondamenta stesse della democrazia. Quanto di più estraneo quindi alle correnti femministe che, considerando la differenza di sesso e genere come risultato non di un’essenza biologica ma di secoli di società capitalistico-patriarcali, continuano a lottare per un’uguaglianza non omologante al maschile, ma riformulata e ampliata alla luce della differenza.
In conclusione, si presenta ancora controverso il rapporto tra le politiche delle donne presenti nei luoghi politico-decisionali delle istituzioni e quelle per la maggioranza delle donne, e si manifesta così ancora irrisolto il nodo del rapporto delle donne con forme e modi della politica istituzionale.
Una possibile alternativa nel modo di fare politica si esprime, secondo Serughetti, nei nuovi movimenti femministi del XXI secolo. Intersezionali e transnazionali, questi movimenti danno voce alle differenze e ai conflitti – di classe, etnia e razza orientamento sessuale identità di genere – che attraversano l’universo femminile. Combinando le battaglie per l’aborto e contro la violenza maschile con le lotte contro le discriminazioni multiple e interconnesse e le disuguaglianze subite dalle donne e da altri soggetti oppressi (persone transessuali, minoranze razziali, immigrati), si pongono come un perno di coalizioni trasversali, con l’obiettivo di una complessiva e radicale trasformazione sociale. Quanto saranno capaci di trasformare in senso sostanziale la rappresentanza politica e la democrazia è un interrogativo che, ovviamente, rimane aperto, nel libro come nella realtà.
Per approfondire
Giorgia Serughetti Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica. Donzelli, 2024