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Cosa succede se il capitalismo digitale privatizza il femminismo, separandolo dalla dimensione collettiva e trasformando la libertà delle ragazze in una performance individuale? L'ipersessualizzazione e la monetizzazione dei corpi online sottendono dinamiche patriarcali basate sulla persuasione, dove il confine tra consenso e compiacenza diventa sempre più sottile

L'illusione 
di essere libere

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Libertà sessuale
Credits Unsplash/Nii SHU

La cultura ipersessualizzata ha trovato terreno fertile nelle piattaforme online, dove l’esibizione del corpo viene presentata come una scelta individuale e fonte di empowerment. Ma si può davvero parlare di libera scelta quando questa è influenzata da algoritmi, dinamiche di validazione sociale e norme di genere?

Attraverso i media, la pubblicità e l’intrattenimento, la cultura contemporanea veicola costantemente un messaggio alle donne: essere desiderate ha valore. Apparire disponibili, anche sessualmente, può essere redditizio. In questa prospettiva, il corpo femminile, privato della sua complessità, continua a essere rappresentato come un prodotto visivo destinato al consumo. Una merce da esibire, sedurre e monetizzare.

Piattaforme come Twitch.tv mostrano come queste dinamiche si intersechino con l’economia dell’attenzione. Dall’analisi di oltre 1.900 clip video, è emerso che le donne sono sovrarappresentate in categorie meno popolari ma più sessualizzate, come ASMR (dall'inglese Autonomous Sensory Meridian Response, risposta autonoma del meridiano sensoriale) o piscina, vasca idromassaggio, spiaggia.[1]

Spesso le ragazze appaiono seminude, in contesti erotici, ritratte mentre eseguono esercizi su richiesta degli abbonati o simulano atti allusivi. Questa estetica ipersessualizzata è stata concettualizzata dal sociologo Brian McNair come porn chic, una fusione tra pornografia soft e cultura della celebrità digitale. Al contrario, i maschi si trovano prevalentemente nelle categorie associate ai videogiochi o nella categoria just chatting, con un’attenzione centrata sul contenuto verbale o ludico.

È innegabile che queste rappresentazioni abbiano profondamente influenzato le adolescenti, che crescono interiorizzando l’idea che la validazione femminile dipenda dall’apparire sessualmente attraenti. Per le ragazze, non si tratta solo di una preferenza estetica, ma di una pressione sistemica che ne modella l’autostima, le aspirazioni e i comportamenti, soprattutto durante l’adolescenza, fase di particolare vulnerabilità psicologica. 

Ciò che un tempo poteva sembrare un’imposizione esterna, oggi si presenta come espressione di autonomia. "Lo fanno perché vogliono", affermano molti adolescenti, in particolare i ragazzi, quando gli viene chiesto perché le loro coetanee pubblichino foto provocanti, imitino estetiche ipersessualizzate o valutino l’idea di aprire un profilo su piattaforme come OnlyFans

Tuttavia, dal punto di vista della psicologia evolutiva, quella che è presentata come una libera scelta risulta ben più ambigua: il cervello delle adolescenti, ancora in fase di sviluppo, è altamente sensibile alla validazione sociale e alle ricompense immediate offerte da “like” e commenti positivi.

Secondo il concetto di assimilazione culturale, le adolescenti non si limitano a consumare contenuti sessualizzati: ne assorbono anche le norme e i valori impliciti, interiorizzandoli come se fossero naturali.[2] 

D’altronde, come sostiene la "teoria della coltivazione" di Gerbner, teorico della comunicazione e studioso di mass media ungherese, l’esposizione prolungata a determinati messaggi mediatici può influenzare la percezione del mondo reale. Se i social media rafforzano l’idea che essere attraenti, desiderabili e sessualizzate equivalga a successo e riconoscimento, è probabile che queste aspettative vengano normalizzate come scelte legittime e individuali.

La critica femminista ha messo ampiamente in discussione questa apparente libertà individuale. Nel suo libro Female Chauvinist Pigs, la scrittrice americana Ariel Levy ha denunciato come le donne abbiano iniziato a partecipare attivamente alla propria oggettivazione, sotto la maschera dell’empowerment. 

Oggi, l’ipersessualizzazione non è più imposta dall’esterno: è interiorizzata e riprodotta come forma di libertà personale. La sociologa Eva Illouz ha mostrato come il capitalismo emotivo trasformi le relazioni sentimentali e sessuali in transazioni simboliche basate su visibilità, capitale erotico e prestazione di mercato.

Questo quadro si collega direttamente al discorso neoliberista postfemminista, che esalta l’autonomia individuale, l’intraprendenza e l’auto-sfruttamento come segni di emancipazione. In questa narrazione, le donne appaiono come soggetti liberi che scelgono consapevolmente di mostrare il proprio corpo, monetizzare la propria immagine o partecipare a dinamiche erotiche digitali. 

Quello che viene omesso è che queste scelte avvengono all’interno di un contesto strutturale caratterizzato da profonde disuguaglianze. Studiose come Rosalind Gill e Angela McRobbie hanno sostenuto che il postfemminismo funzioni come un’ideologia che privatizza il femminismo, separandolo dalla dimensione collettiva e trasformando la liberazione in una performance individuale. "Scegli tu" dice il neoliberismo. Ma ciò che appare come scelta è spesso adattamento.

Questo ci conduce al concetto di “patriarcato del consenso”, proposto da autrici come Ana de Miguel e Katherine Angel, secondo cui non si tratta più di imporre desideri o controllare i corpi tramite la coercizione diretta, ma di creare un contesto in cui le donne acconsentano volontariamente a ciò che ci si aspetta da loro, credendo di farlo per libera scelta. 

Come afferma De Miguel, "il nuovo patriarcato ha imparato che per mantenere il potere non è necessario imporre, basta persuadere". In quest'ottica, il consenso diventa uno strumento più efficace della proibizione per legittimare l’ordine patriarcale.

Siamo dunque di fronte a una generazione più libera o a una cultura che ha riciclato i propri meccanismi di controllo affinché la subordinazione venga vissuta come empowerment?

È innegabile che la pressione ad apparire attraenti inizi sempre più precocemente. Le ragazze crescono sapendo che essere sexy non è solo desiderabile, ma quasi obbligatorio. L’aumento degli interventi di chirurgia estetica tra le adolescenti, l’uso precoce del trucco e l’ossessione per l’essere “instagrammabili” sono soltanto sintomi di un sistema che insegna alle donne che il loro principale capitale è quello sessuale. 

Il problema è che le conseguenze psicologiche e fisiche di queste dinamiche sono spesso ignorate: disturbi alimentari, ansia, bassa autostima, difficoltà di concentrazione e scarso rendimento scolastico, per citarne solo alcuni. E mentre i social media premiano certi comportamenti con visibilità e approvazione, il messaggio si radica: sessualizzarsi è un modo libero e dal potere emancipatorio per ottenere attenzione e riconoscimento. E naturalmente, denaro.

Ma si tratta davvero di empowerment? La agency sessuale, intesa come capacità di prendere decisioni libere, informate e non coercitive sul proprio corpo e il proprio desiderio, richiede molto più della semplice volontà. Richiede un contesto, condizioni materiali e simboliche che permettano una vera scelta. 

Perché il consenso sia eticamente valido, deve includere anche la possibilità di dire no senza conseguenze. Ma quando tutto ciò che ti circonda – social media, cultura, modelli di successo – ti dice che essere sexy è il modo migliore (o l’unico) per essere visibili, quanto spazio resta per scegliere un’altra strada?

La risposta del femminismo non può essere moralizzante né punitiva. L’obiettivo non è colpevolizzare chi usa il proprio corpo come strumento di sopravvivenza o visibilità. Si tratta, piuttosto, di analizzare criticamente i contesti che orientano queste scelte. 

In questo scenario, un’educazione sessuale completa fin dalla prima infanzia è cruciale per fornire strumenti di pensiero critico, consapevolezza di sé e capacità di porre limiti. Altrettanto importante è la regolamentazione dell’accesso e della circolazione dei contenuti, la protezione dei minori e la messa in discussione di un modello economico che ha trasformato il corpo – soprattutto quello femminile – in una merce di mercato.

Perché sì, pubblicare contenuti sessualizzati può fruttare denaro. Ma se la validazione continua a venire dallo sguardo maschile, il potere resta nelle mani degli uomini.

Note

[1] L'acronimo ASMR indica la sensazione di lieve formicolio in diverse parti del corpo e di benessere che alcune persone provano in risposta a determinati stimoli uditivi, come fruscii e sussurri. Su piattaforme come YouTube, twitch e TikTok, l'ASMR è diventato un trend, dove i video prodotti da persone specializzate nella produzione di questi stimoli audio-visivi raggiungono milioni di visualizzazioni.

[2] Il concetto è stato elaborato da Hamilton et al., 2022.

Riferimenti

A. De Miguel, Neoliberalismo Sexual, Madrid, Ediciones Cátedra, 2016.

G. Gerbner, L. Gross, M. Morgan, N. Signorielli, J. Shanahan, Growing up with Television: Cultivation Processes, in Media Effects, London, Routledge, 2002, pp. 53-78.

R. Gill, Empowerment/Sexism: Figuring Female Sexual Agency in Contemporary Advertising, in Feminism and Psychology, 18, 2008, pp. 35-60.

V. Hamilton, A. Soneji, A. McDonald, E.M. Redmiles, “Nudes? Shouldn’t I Charge for These?”: Motivations of New Sexual Content Creators on OnlyFans, in Proceedings of the 2023 CHI Conference on Human Factors in Computing Systems, April 2023, pp. 1-14.

E. Illouz, Cold Intimacies: The Making of Emotional Capitalism, Cambridge, Polity, 2007.

A. Levy, Female Chauvinist Pigs: Women and the Rise of Raunch Culture, New York, NYZ Free Press, 2005.

B. McNair, Striptease Culture: Sex, Media and the Democratisation of Desire, London, Routledge, 2002.

A. McRobbie, Post-Feminism and Popular Culture, in Feminist Media Studies, 4, 3, 2004, pp. 255-264.