Scriveva Elena Gianini Belotti «Che cosa può trarre di positivo un maschio dalla arrogante presunzione di appartenere a una casta superiore soltanto perché è nato maschio? La sua è una mutilazione altrettanto catastrofica di quella della bambina persuasa della sua inferiorità per il fatto stesso di appartenere al suo sesso». La risposta è una lunga storia di riflessione maschile su come agire cambiamenti politici, personali, relazionali che aprano spazi di libertà
Il prossimo otto marzo saranno trascorsi trent’anni dal primo documento pubblico contro la violenza maschile verso le donne con cui convocammo l’8 marzo del 1985 un’assemblea in una sala del Campidoglio a Roma. Una vita.
Siamo partiti dicendo che la violenza tra i sessi ci interrogava come uomini, rivelava la distruttività di un immaginario, di una rappresentazione della sessualità e delle relazioni che faceva parte del nostro universo culturale.
Da allora, in effetti, la mia vita è divenuta inscindibile da una riflessione, come uomo, sulla violenza maschile ma più in generale da un lavoro personale e politico, quotidiano, sulla pervasività dei condizionamenti legati ai ruoli stereotipati di genere. Da allora il mio punto di vista sulla politica, la cultura, il linguaggio, le relazioni è mutato.
Non si tratta di un impegno professionale ma di un percorso politico, personale ed esistenziale. È partito dalla consapevolezza che quel sistema di oppressione che è alla base della violenza, produce anche una miseria nella vita degli uomini e che quel privilegio maschile, proprio a seguito della rivoluzione prodotta dalle donne, è ridotto a un feticcio incapace di rispondere alla mia domanda di senso. Ho scelto di impegnarmi in Maschile Plurale perché mi interessava fare un percorso su di me che, a partire dalla mia storia e dai miei desideri di cambiamento e dalle mie contraddizioni, costruisse una pratica politica collettiva, pubblica, di uomini in relazione con le donne.
Ho scelto, con altri di misurarmi con i “dividendi del patriarcato”, con i vantaggi che il rapporto di potere tra i sessi ci dà, non per una mera “rinuncia”, un’assunzione di responsabilità in nome di una motivazione etica. In questa mia attività vado spessissimo nelle scuole: se ci andassi a dire che si tratta di rinunciare ad autorità, privilegi e opportunità in nome della necessità di riparare un’ingiustizia a danno di una “categoria discriminata” il mio discorso sarebbe percepito come la “solita predica politicamente corretta”. Provo a parlare al desiderio di libertà di ragazze e ragazzi, provando a dire che si tratta di due libertà che vanno insieme.
Al tempo stesso il nostro percorso ha sempre incrociato una reazione femminile ambivalente. La domanda: “a cosa sei disposto a rinunciare?”, cela il dubbio: “Dove è la fregatura? Perché gli uomini dovrebbero contrastare la violenza maschile?”. Si tratta di una rappresentazione che ha direttamente a che fare con la violenza: la trasformazione delle relazioni di potere tra donne e uomini è infatti diffusamente rappresentata come minaccia per gli uomini, indicata spesso come giustificazione per reazioni frustrate o esasperate. Alla riproposizione ambigua di un vittimismo maschile abbiamo provato a opporre una differente posizione che riconosce in questo cambiamento e nella libertà e autonomia delle donne un’opportunità per la nostra libertà. Una posizione maschile che si limita alla contemplazione di questo privilegio e che non mette in gioco un proprio desiderio di trasformazione non è più rigorosa ma, a mio parere, più arretrata.
Diciamo da tempo che non basta “condannare la violenza” ma bisogna riconoscerne le radici in una cultura condivisa e questo non per attenuare questa condanna ma per fare qualcosa in più e cioè sottoporre a critica questa cultura, un di più e non un di meno di radicalità nel contrasto alla violenza. Oggi l’attenzione pubblica alla violenza è molto cresciuta, ma spesso tradisce e distorce la percezione del fenomeno. La violenza maschile contro le donne è stata strumentalizzata per campagne elettorali giocate sulla sicurezza, per campagne xenofobe. Troppo spesso l’indignazione per la violenza porta a considerarla un fenomeno da “cronaca nera”, una devianza di cui delegare la gestione alle forze dell’ordine, ai criminologi, agli psicoterapeuti: mentre si enfatizza l’allarme si marginalizza il fenomeno. Anche chi lavora nel contrasto alla violenza deve continuamente interrogarsi su quali strategie metta in campo per distanziarsi dalla carica perturbante della violenza: quanto il proprio ruolo di “operatore/trice”, le proprie competenze e saperi strutturati non divengano una protezione, un modo per dire:“mi impegno attivamente contro la violenza dunque sono altro da quella donna vittima, o da quell’uomo violento”. Questa tensione tra ascolto distaccato, empatia, rischio di collusione è ancora più controverso per un uomo che voglia mettersi in relazione con un autore di violenza. È possibile porsi in una posizione meramente normativa e giudicante, in un distacco tra esperto e “deviante” che ci rassicura ma rende spesso sterile la comunicazione? Ma come costruire un ascolto “vero” che non offra il fianco al richiamo collusivo, alla manipolazione e alla complicità?
Il rifiuto di una prospettiva meramente etica dell’impegno maschile ha per me anche un’altra implicazione: il rifiuto di posizioni maschili ambigue come quella dei protettori, dei difensori, dei salvatori delle donne o dei giudici degli altri uomini. Abbiamo spesso criticato un discorso pubblico sulla violenza che rende visibili solo le vittime e rappresenta le donne in una condizione fissa di vittime, soggetti deboli bisognosi di tutela e protezione. Una rappresentazione che occulta la soggettività femminile, giustifica una forma gerarchica dei rapporti tra i sessi e una posizione maschile paternalistica che sfocia troppo spesso in una posizione di controllo. Molti sono pronti a condannare la violenza e forse anche a condannare le disparità di diritti e di opportunità tra i sessi. E questo è già un fatto nuovo. Ma se la collocazione maschile non ha come motivazione una domanda di libertà anche per se stessi, rischia continuamente l’inautenticità, la ricerca della gratificazione. Oggi a questo discorso si associa un’altra pericolosa rappresentazione che descrive la violenza come frutto di un disordine, come perdita della tradizionale virtù virile dell’autogoverno proponendo una qualche nostalgia di un ordine del Padre perduto.
Affrontare le radici della violenza ci pone dunque di fronte alla complessità delle relazioni e del nostro immaginario condiviso. Come tenere insieme nettezza nel contrasto della violenza, radicalità nella critica alla cultura che la giustifica e capacità di cogliere e rappresentarne la complessità? Riconoscere che i rapporti tra i sessi sono un terreno politico chiede attenzione alle tante ambivalenze e alla complessità delle relazioni, la loro complessità che comprende aspetti culturali, simbolici, psicologici, sociali. Credo dovremmo avere la capacità di produrre una riflessione teorica, una politica, che sia in grado di esprimere un conflitto, una pratica e una parola politica all’altezza di questa complessità. A partire dal riconoscimento che il “patriarcato” non è altro da noi ma ci attraversa. Non è un sistema di mero dominio materiale: è un sistema simbolico, è una costruzione culturale profonda e condivisa che struttura le vite e le identità di donne e uomini.
Se la violenza ha radici così profonde nella nostra “normalità”, è possibile affrontarla limitandosi alla repressione dei colpevoli? La violenza è questione che riguarda solo le donne o chiede anche un’assunzione di riflessione degli uomini in generale e anche un intervento che si rivolga agli autori della violenza? È possibile limitarsi a un intervento a sostegno delle vittime o di punizione degli autori o può servire un intervento di “prevenzione” che tenti di agire sui comportamenti maschili all’origine del problema? Sappiamo già tutto sulle dinamiche della violenza o ci interessa ascoltare e capire? Conoscere dinamiche, motivazioni, rappresentazioni degli uomini che agiscono violenza può aiutarci ad affrontare una problematica sociale, relazionale e culturale così profonda e diffusa?
Eppure emerge spessouna diffidenza verso gli interventi di lavoro con uomini autori di violenza percepiti come iniziative che toglierebbero di fatto risorse ai centri antiviolenza. Anche in questo caso il fatto che la mia attività sia prettamente volontaria e gratuita mi permette di affrontare questo tema con più serenità. Se sì perché porli in contrasto con i centri antiviolenza? Ha senso considerare i centri anti violenza a favore delle donne e i centri che lavorano con uomini violenti come iniziative “a favore degli uomini”? Perché non difendere e affermare un’iniziativa comune e integrata di contrasto alla violenza?
Per tutto questo l’impegno contro la violenza maschile contro le donne è per me parte di una pratica politica di trasformazione che chiede l’espressione di una soggettività maschile capace di esprimere, in autonomia, uno sguardo critico sul mondo e un desiderio di cambiamento. Questa soggettività non può prescindere da una relazione politica con le donne e dal riconoscimento del proprio, limite, della propria parzialità. Ma questa relazione politica è possibile se questo desiderio è reciproco e se è incontro tra due differenze che si riconoscono parziali, non autosufficienti e sul riconoscimento che l’alterità non è una minaccia ma una condizione costitutiva di noi stessi. Mi piacerebbe che l’impegno maschile contro la violenza venisse percepito non come un’indebita invasione ma come l’occasione per un passo avanti politico che interessi uomini e donne.