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Oggi le donne ucraine arrivano in Italia per la guerra ma la loro migrazione è iniziata molto prima nel tempo, come scelta di autodeterminazione per se stesse e per le proprie figlie. Ne parliamo con Iuliia Laschchuk, ricercatrice dello European University Institute e attivista ucraina

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ucraine in Italia
Credits Unsplash/Jr Korpa

Le donne che oggi lasciano l'Ucraina e raggiungono l'Italia lo fanno per scappare dalla guerra, ma il loro percorso di migrazione è cominciato molto prima nel tempo e per ragioni diverse. Ne parliamo con Iuliia Laschchuk, ricercatrice dello European University Institute e attivista ucraina, che ha lavorato molto intorno ai concetti di identità e appartenenza, sulla dimensione etica dell’accoglienza e sulla migrazione femminile. Nel corso dell'ultima edizione del Festival di Internazionale a Ferrara, è stata tra le ospiti di inGenere negli spazi del Laboratorio Aperto Ex Teatro Verdi gestito dalla Fondazione Brodolini.

Da febbraio 2022 – quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina – l’Europa ha dovuto confrontarsi con l’eventualità concreta di una guerra vicinissima alle nostre porte. Se la condanna dell’invasione russa e della guerra è stata unanime, vari sono stati i temi che hanno interrogato e persino diviso l’opinione pubblica – dall’invio di armi e il finanziamento dell’economia bellica, alle discriminazioni operate dai decisori pubblici fra persone rifugiate di cittadinanza ucraina e di altre nazionalità. C’è però un aspetto che è stato sonoramente assente dal dibattito pubblico, ma anche dalle misure di policy adottate: quello del genere di chi fuggiva dal conflitto.

Parto da un presupposto: è ovvio che i diritti delle donne siano diritti umani, e che i diritti delle donne migranti siano diritti umani. Dobbiamo però ricordarlo, perché oltre il 52% delle persone migranti in Europa sono donne. Sono ovunque, io stessa sono una di loro. Ma sono invisibili: queste donne sono assenti dai processi decisionali politici, dai media e anche da tanti altri luoghi. Quindi la mia domanda è: dove sono queste donne? E soprattutto, che cosa possiamo fare per loro noi donne che abbiamo una voce (e non solo attraverso il lavoro di ricerca e i programmi televisivi)? È importante parlare di genere rispetto alle migrazioni innanzitutto perché bisogna fare delle distinzioni fra donne, uomini e persone non binarie. Perché sono in gioco vulnerabilità diverse, prima, durante e dopo il percorso di migrazione, in cui persone diverse hanno anche bisogni diversi. Inoltre, è importante parlare di intersezionalità: essere donne non è l'unica questione, ma c'è quella di essere donne migranti, magari di essere donne migranti di colore, anziane, o migranti con disabilità. Insomma, ci sono tanti possibili estremi per l’esclusione.

Iuliia Lashchuk
Iuliia Lashchuk

In un articolo del 2023, tu ricordi che più dell’80% degli 8,2 milioni di persone fuggite dall’Ucraina sono donne, spesso in una condizione di vulnerabilità ed esposte al rischio di violenza e sfruttamento lungo il tragitto e nei paesi di accoglienza. Nello stesso articolo definisci la migrazione femminile dall’Ucraina “una questione femminista”. Vorrei con te provare a riempire questo vuoto narrativo e politico chiedendoti: chi sono le donne fuggite dall’Ucraina? E che cosa significa che la loro migrazione è una questione femminista?

Prima di rispondere alla tua domanda, ci tengo a dire che non sono un’esperta di scienze politiche né un’economista di formazione. Sono una filosofa, quindi io non vedo numeri, ma volti, esperienze. Le persone che arrivano in Europa dall’Ucraina, come hai anticipato, per l’80% sono donne, tre terzi di loro hanno anche bambini. Possono quindi essere donne con famiglie al seguito o che viaggiano da sole, e questo stesso fatto le espone a molti più rischi in termini di violenze e abusi. È importante sottolineare che, per molte di queste donne, non si tratta della prima esperienza da rifugiate: ricordiamolo, la guerra in realtà non è iniziata un anno e mezzo fa, ma nel 2014, con l'annessione della Crimea da parte della Russia e con gli scontri nel Donbass. Quindi già in quel momento molte donne sono state costrette ad andare all'estero oppure a essere sfollate internamente all’Ucraina. A questo proposito, la migrazione delle persone ucraine, e in particolare delle donne ucraine, in Italia non è un fenomeno nuovo: già prima del 2022 c'erano 4 milioni di persone di cittadinanza ucraina che lavoravano all'estero. L’Italia in questo senso rappresenta un caso interessante, perché qui la maggioranza (77%) delle persone che arrivavano dall’Ucraina erano donne, dal momento che nel paese si prospettavano per loro opportunità di lavoro specificamente legate al loro genere.

Che differenze ci sono tra le donne che arrivavano nella migrazione di ieri e quelle che arrivano oggi?

Nella migrazione di oggi è cambiato il profilo delle persone che arrivano, perché è chiaro che in questo caso si tratta di una migrazione obbligata, dettata dalla necessità di mettersi in salvo, e non di un atto volontario. Si tratta di donne tendenzialmente più giovani: se in precedenza l’età media delle donne ucraine che arrivavano in Italia per fare le badanti era tra i 45 e i 47 anni, adesso invece si attesta sui 38 anni. È molto diverso anche il livello di istruzione, perché le donne che arrivano ora dall'Ucraina hanno molte più competenze e qualifiche: il 70% ha un'istruzione di livello superiore. Prima di lasciare il loro paese, erano attive professionalmente. Però purtroppo le occupazioni a loro disposizione in Italia non corrispondono ai loro livelli di qualifiche, e questo è fonte di tensioni: non vorrebbero fare le badanti, ma vorrebbero un lavoro adatto al loro livello di studio. 

Qual è il contesto relazionale in cui si muovono queste donne? 

Molte delle ucraine che arrivano oggi in Italia seguono le reti di contatti di familiari e amici, visto che qui è molto complesso avere accesso ad alloggi sociali, perché non ci sono posti disponibili. Un ruolo importantissimo è stato quindi svolto sia dal gruppo di persone migranti ucraine che erano già qui, ma anche dalle famiglie italiane che hanno aperto le loro porte. Infine, fra le donne ucraine che lasciano l'Italia o che ritornano in Ucraina solo un terzo ha bambini: questo testimonia la paura rispetto un paese ancora segnato dalla guerra e un senso di grande attenzione e per il benessere e la vita per i propri figli, perché è chiaro che è comunque difficile poter vivere in Italia o in un altro paese europeo e ricostruirsi una vita.

In un altro passaggio del tuo articolo, ribadisci un concetto assolutamente fondamentale quando si intende studiare il tema migratorio in una prospettiva di genere. Ovvero, l’importanza di superare una visione unidimensionale, sostanzialmente piatta e vittimistica, della donna migrante. Tu dici che assieme al diritto alla protezione, le donne migranti hanno bisogno anche del diritto alla soggettività e al riconoscimento della loro agency (inclusa l'agency politica).

La vulnerabilità e l'agency vanno di pari passo. E a differenza di quanto si sente spesso sui media, che tendono sempre a raggruppare donne e bambini, è importante considerare queste come due categorie separate, perché hanno in realtà necessità e vulnerabilità diverse. Parlando del concetto di agency, vorrei ricordare alcuni fatti: nel 1991 l’Ucraina ottenne l’indipendenza, ma in realtà regnava il caos. C’era sì l’indipendenza politica, ma non si sapeva come gestirla. Anche economicamente la questione era complessa, e le persone cercavano semplicemente di sopravvivere. Io stessa, nata nel 1987, mi ricordo bene che quasi la metà delle mamme dei miei compagni di classe (una su due) era andata in Italia per motivi di lavoro. Alla fine degli anni Novanta, quella di lasciare il paese era proprio una strategia di sopravvivenza, anche perché le fabbriche si erano fermate e le persone spesso lavoravano ma senza ricevere un salario per mesi. Proprio in quel periodo, ci fu anche un passaggio di genere nella migrazione.

Tu dici espressamente che è importante riconoscere che le donne non sono vittime passive, ma partecipano attivamente ai processi migratori svolgendo vari ruoli, spesso quello di “costruttrici di comunità” (community builders).

Se prima si era sempre parlato di migrazione al maschile – non che le donne non migrassero, ma erano come invisibili, anche perché spesso venivano accorpate all’uomo che emigrava insieme alla famiglia e quindi considerate come quelle che poi si sarebbero occupate della casa e dei figli – dalla fine degli anni Novanta in poi furono le donne a essere incaricate di provvedere al sostentamento familiare. Tantissime di loro vennero soprattutto in Italia perché c’era una grande richiesta di baby-sitter, ma soprattutto di badanti. Queste donne arrivavano dunque in un paese che non conoscevano, di cui non conoscevano la lingua e la cultura, e che, in un certo senso, non ne favoriva l’arrivo: anche se c’era una grande domanda di queste figure, da parte dello stato non venivano attuate politiche che favorissero il loro ingresso e il loro soggiorno. Quindi, in questa prima fase, la maggior parte delle donne Ucraine arrivavano in Italia come irregolari, ma non per loro volontà, ma perché non avevano scelta.

Come sei arrivata a questo posizionamento e perché è importante vedere, riconoscere, valorizzare l’agency delle donne che intraprendono un percorso migratorio?

Anche se ho ascoltato molte storie di pericolo vissute da queste donne, ne ho sentite altre di successo personale. E se, in un primo momento, la molla per lasciare il paese e venire qui era la sopravvivenza, e quindi avere un’autonomia finanziaria, più tardi, quando in Ucraina la situazione è cominciata a migliorare, è interessante notare come le donne emigrino per motivi diversi. È qui che entra in campo il concetto di agency, perché una delle ragioni principali dietro la migrazione era la possibilità di separarsi da mariti spesso violenti senza dover ottenere un divorzio, cosa che, soprattutto nei piccoli centri e nei villaggi, era qualcosa che non veniva ben visto. Quindi, l’arrivo in Italia coincideva con l’acquisizione di un’indipendenza finanziaria, mentale, con il ritornare a essere soggetti a pieno titolo, ma anche con una nuova consapevolezza di sé: queste donne si accorgono che, a 45 anni, non sono delle nonne, ma sono ancora delle donne a tutti gli effetti, e cominciano perciò a sentirsi meglio e avere una nuova visione di sé stesse.

Che impatto ha avuto tutto questo sulle esistenze?

Se in un primo momento queste donne lavoravano continuamente – anche con pochissimo tempo libero, visto che spesso vivevano con la famiglia dove lavoravano – a partire da momenti diversi, nel 2004, nel 2014 e nel 2022, abbiamo osservato un cambiamento: queste donne cominciano a uscire, a diventare attive, visibili. Quindi, attraverso la loro presenza fuori dalle famiglie in cui lavorano cominciano anche a esercitare una sorta di forza politica, a far sì che le persone si interessino o comunque conoscano, attraverso di loro, il loro paese di provenienza. Un altro aspetto interessante è il ruolo svolto dalle madri, che hanno affrontato la migrazione, rispetto al processo di emancipazione delle figlie. Dopo che si sono stabilite in Italia o in altri paesi europei, solo in un secondo momento hanno chiesto alle figlie di raggiungerle, offrendo loro in questo modo, fin da subito, migliori opportunità di vita nel paese di arrivo.

Quali sono secondo te gli stereotipi più resistenti che ancora infestano la narrazione dominante sulle migrazioni?

Oggi molte delle ucraine che vivono in Italia lavorano come badanti o facendo le pulizie, e quindi c’è uno stereotipo legato al fatto che queste siano le uniche professioni adatte a queste donne. In realtà, i risultati di un lavoro di ricerca che ho fatto nel 2018 sulla migrazione artistica delle donne ucraine, che ho svolto facendo interviste a donne emigrate in sei paesi europei diversi, mostrano che ci sono motivi anche molto differenti fra loro dietro la migrazione.

In altri paesi europei le donne ucraine riescono a far valere i propri titoli di studio e a trovare lavori diversi rispetto a quello di badanti?

La situazione varia molto da un paese europeo all’altro: tutto dipende dalle politiche che un paese ha per consentire alle persone migranti di accedere al mercato del lavoro. Ogni anno in Italia c’è il cosiddetto "decreto flussi", che sancisce il numero di migranti che possono arrivare nel paese e avere accesso a posti di lavoro in determinati settori, ognuno dei quali ha un tetto massimo di persone che vi possono accedere. Questo ovviamente non è sufficiente, e inoltre complica la situazione. In altri paesi la situazione è molto diversa, ad esempio in Polonia, dove c’è anche una comunità intellettuale molto forte e un programma per cui chi compie i propri studi lì, anche al livello di un dottorato di ricerca, poi può avere facilitazioni per rimanere nel paese. Anche il Portogallo ha delle procedure semplificate per l’accesso al mercato del lavoro.

Questo articolo è una versione trascritta del panel "La diaspora delle ucraine in Italia", curato da inGenere il 1° ottobre 2023 al Festival di Internazionale a Ferrara.