Opinioni

Con il decreto flussi, quasi 20.000 nuove persone straniere potranno entrare in Italia per lavorare nel settore della cura da qui al 2025, ma i posti disponibili non bastano a coprire la domanda, e il lavoro di cura nel nostro paese sembra destinato a restare essenziale solo in teoria, non nella pratica del pieno riconoscimento dei diritti

La cura 
invisibile

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Cura invisibile
Credits Unsplash/Pierre Châtel-Innocenti

Quattro minuti. Questo il tempo che lo scorso 4 dicembre è stato necessario per riempire i 9.500 posti per colf e assistenti familiari autorizzate a entrare in Italia nel 2023. Altrettante ne saranno autorizzate nel 2024 e nel 2025. Quindi 19.500 in tutto. 

Peccato che lo stesso giorno siano state presentate ben 86.000 domande d'impiego per questo tipo di lavoro, di cui appunto solo le prime 9.500, arrivate nell'arco di soli 4 minuti, sono state accettate dal Ministero dell'Interno. 

Le domande sono state presentate da persone italiane con necessità di cura, per sé o per persone della propria famiglia. Sulla carta si tratta della richiesta di poter impiegare una persona da un paese terzo che, qualora la domanda fosse accettata, riceverà un nulla osta presso il Consolato italiano del paese di origine e potrà quindi ottenere un visto per entrare e lavorare nel nostro paese. 

Il cosiddetto "click-day" del 4 dicembre, una finestra telematica aperta dal Ministero dell'Interno in cui presentare questo tipo di domande, non riguardava solo il lavoro di cura, ma anche il lavoro dipendente (non stagionale) in molti altri settori, nonché le quote per ingressi da paesi con cui esistono accordi bilaterali (dalle Filippine all'Armenia, passando per l'Ucraina e il Pakistan) e infine quelle per la conversione di permessi di altro tipo in permessi per lavoro e per discendenti di persone italiane in Venezuela. 

In tutti questi casi, i posti disponibili sono altamente inferiori alle domande presentante, con il risultato che decine di migliaia di lavoratrici, lavoratori e di persone che in Italia hanno bisogno di impiegarle, nella propria casa o azienda che sia, vengono lasciate fuori. 

Un sistema, quello delle quote flussi, che fa acqua da tutte le parti. Lo si è detto e lo si continua a ripetere. E si rimpiange addirittura il vecchio modello della sponsorship (introdotto dalla Legge Turco-Napolitano e poi rimosso). La ripetuta scarsezza di posti disponibili, nonché la necessaria finzione della chiamata a distanza, sono solo i più macroscopici dei punti in questione. 

Punti che riguardano più che mai la cura domiciliare, per la quale quest'anno sono state stabilite quote considerate particolarmente capienti (le suddette 19.500), dopo anni in cui il settore non riceveva nessuno stanziamento nel Decreto flussi annuale. 

Parliamo tuttavia di numeri piccolissimi, considerato che quest'ambito conta più di un milione di persone occupate regolarmente, e altrettante che si stima lavorino irregolarmente

Si tratta spesso di persone entrate in Italia con le necessarie autorizzazioni, ad esempio con un permesso turistico o di studio, oppure come richiedenti asilo. Tuttavia, l'impossibilità di convertire questo tipo di permessi in quelli per lavorare le ha lasciate in un limbo, in attesa delle fantomatiche quote (nella speranza di rientrarvi). 

A ciò si aggiunge il caso, ancor più paradossale, delle migliaia di lavoratrici che nel 2020 hanno fatto domanda – in quella che doveva essere la grande regolarizzazione dei cosiddetti lavori essenziali – per essere regolarizzate, e che da allora sono ancora in attesa del responso. Sì, da più di tre anni. 

Ci troviamo quindi di fronte a uno scenario disarmante: in un paese con i più alti tassi di invecchiamento al mondo, con una fetta enorme di popolazione con necessità di assistenza, vediamo, da un lato, un sistema sanitario, sia pubblico che privato, incapace di farsi carico delle esigenze di queste persone; dall'altro, un sistema di impiego privatistico su base familiare, emerso negli anni come unica strategia fai-dai-te possibile, che va avanti con tutti i rischi e le difficoltà che comporta. 

In entrambi i casi, l'impiego regolare di persone migranti è osteggiato in tutti i modi. Infermiere, operatrici socio-sanitarie o assistenti familiari che siano: per chi è straniera, accedere a quest'occupazione in Italia è impossibile, o comunque estremamente difficile, se non dopo anni di irregolarità, sfruttamento e invisibilità.

Una forma gravissima di intreccio fra razzismo e sessismo, che si basa sulla continua riconferma della svalutazione del lavoro migrante, così come del lavoro di riproduzione sociale che queste persone svolgono. Un lavoro unico, essenziale appunto, ma raramente svolto in condizioni di dignità e rispetto.

Se dalla questione dei numeri passiamo a quella della modalità di assunzione, tramite il dispositivo dell'impiego a chiamata per persone all'estero, troviamo ulteriori elementi critici. 

Ci si chiede spesso come si possa impiegare una persona 'estranea' per prendersi cura dei propri genitori, e farla vivere in casa con loro. Il fatto è che in Italia è decisamente dominante un certo immaginario per cui sostanzialmente la cura è un "affare di famiglia": a occuparsi delle persone anziane dovrebbe essere una persona della rete familiare, o da questa designata, e su cui ricadrà la (non facile) aspettativa che faccia quello che farebbe una figlia o una parente

In una tale configurazione sul piano simbolico e culturale, l'impiego a distanza di una persona sconosciuta è impensabile. Grazie al click-day si chiede quindi, in realtà, l'autorizzazione per impiegare una persona già conosciuta, che probabilmente già si occupa di quelle persone anziane da anni, nell'invisibilità più totale.

In questo senso, in Italia troviamo un elemento di resistenza, potremmo dire, rispetto a quello che accade altrove. Già da diverso tempo, nei paesi industrializzati in Asia e Medio Oriente – ma più recentemente anche in diversi paesi europei, per non parlare del Canada – è del tutto normale assumere figure di questo tipo tramite agenzie di collocamento transnazionali. 

La risorsa viene scelta tramite un catalogo che contiene la biografia delle candidate, le loro foto, spesso accompagnate da un video. Mentre famiglie a Taipei, Monaco o Toronto sfogliano questi cataloghi, le candidate colmano i lunghi tempi di attesa con corsi di formazione (da come si cucina a come si usa una lavatrice), per cui dovranno pagare sempre la stessa agenzia di intermediazione. 

Si tratta di un sistema basato su un impiego per un periodo di tempo limitato – un paio d'anni, oppure, nel caso di impiego transfrontaliero, solo alcuni mesi – con persone diverse che si succedono una dopo l'altra. 

Le ripercussioni sulle condizioni di vita di queste lavoratrici, sul rispetto dei loro diritti, nonché sulla qualità della relazione fra la persona assistita e colei che se ne prende cura, sono negative da tutti i punti di vista. E le agenzie di intermediazione la fanno letteralmente da padrone

È questo che i nostri governi si immaginano anche per l'Italia? Non credo che sia così, e non credo funzionerebbe mai. 

Credo, piuttosto, che il governo dovrebbe avere il coraggio di proporre una riforma completa dell'impiego nel settore della cura, domiciliare e non, prendendo sul serio e con lungimiranza le necessità sociali e demografiche del nostro paese e il contributo delle persone di origine straniera che ci lavorano, in modo tale da porre, sia loro che le persone che assistono, nelle condizioni di trovare nella cura un'occupazione pienamente riconosciuta. 

Riferimenti

Sabrina Marchetti, Migration and domestic work, Springer, 2022

Sabrina Marchetti, Giulia Garofalo Geymonat e Anna Di Bartolomeo, Dilemmas around temporariness and transnational recruitment agencies: the case of migrant caregivers in Taiwan and Germany, "Journal of Ethnic and Migration Studies", 48:16, 3894-3909, 2022