Gli anni passano, i capi di stato si succedono, ma l'Italia sembra ferma allo stesso punto, un nodo di fraintendimenti e stereotipi che riguardano il rapporto tra genere e potere. La riflessione di una sociologa, in un dibattito ancora aperto
Molte donne pensano e dichiarano che la società, il sistema sociale, perfino le città, abbiano una matrice di tipo patriarcale e che tutto – in altre parole – sia governato, gestito, deciso dagli uomini. Altre, soprattutto se giovani, pensano che il merito, la competenza, vinca su tutto. E, per finire, un numero considerevole di donne “non pensa niente”; pensa cioè , che non esista una questione di genere; non sa nulla di discriminazione, di disuguaglianze.
Rispetto a queste immagini, e prima di affrontare la questione del rapporto delle donne con il potere, vale la pena ricordare alcuni dati che ci possono offrire uno sfondo su quale è la oggettiva condizione della donna in Italia.
La situazione, già negativa per le donne nel mondo del lavoro (tanto che si è parlato di “she-cession” ), con la pandemia ha visto ulteriormente allargarsi la forbice tra donne e uomini: non solo una significativa perdita di posti di lavoro, ma anche di condizioni di lavoro.
Lo smartworking ha reso poi particolarmente gravosa la condizione delle donne con figli in età prescolare, che hanno dovuto gestire una difficile conciliazione tra lavoro e cura, in presenza di una assai ridotta condivisione con il partner.
Questi dati, fra l’altro, costituiscono causa e insieme effetto del forte radicamento di stereotipi di genere che agiscono sul ruolo sociale di donne e uomini e in generale su una scarsa consapevolezza di cosa sia e cosa determini l’identità di genere. Basta menzionare un paio di esempi dallo European Values Survey per capire quanto gli stereotipi incidano sulla cultura di genere, anche delle donne stesse: “un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora”; “un lavoro va bene ma quello che le donne vogliono veramente è una famiglia e dei figli”.
Quanto fin qui brevemente ricordato incide direttamente (insieme ad altri dati che commenteremo più avanti) sull’andamento del Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum. Indice molto interessante perché costruisce il ranking su quattro aree: partecipazione economica e opportunità; livello di istruzione; salute e sopravvivenza; potere politico. Su 156 paesi l’Italia, nel 2021, si trova grosso modo a metà strada avendo di qualche posizione migliorato la propria collocazione rispetto all’anno precedente, ma decisamente in coda alla classifica per quanto riguarda il confronto con l’Europa. Ma l’aspetto più interessante, se si guardano i dati, è la loro contraddittorietà: se buoni sono gli andamenti del divario di genere per quanto riguarda istruzione e salute, assai ondivago è l’andamento degli indicatori economici e decisamente negativo il divario di genere rispetto all’empowerment politico.
Si è già detto molto a proposito del livello di occupazione e di altri indicatori economici e di qualità della vita; e non basta a ribaltare la situazione l’effetto positivo della legge Golfo-Mosca, con dati molto positivi a dieci anni dalla sua istituzione.
È proprio l’indicatore di empowerment politico e la grave sotto-rappresentazione delle donne italiane in ruoli politici a determinare la bassa collocazione dell’indice del Global Gender Gap.
Pochi dati bastano a confermarlo: le donne in Italia occupano solo un terzo delle cariche politiche nazionali e meno di un quinto di quelle locali, anche se la rappresentanza parlamentare femminile, ora al 36%, è aumentata negli anni grazie alle quote di genere (doppia preferenza).
Le sindache rappresentano il 14% del totale e il loro numero diminuisce proporzionalmente man mano che cresce la dimensione delle città. Significa che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, è proprio nei piccoli comuni che si registrano quote più elevate di donne sindache (per esempio rappresentano il 3,3% nei comuni con popolazione compresa tra 50 e 100milla abitanti). Questo dato non deve stupire, anzi è di grande significato perché è prima di tutto nei comuni più piccoli che c’è in genere meno interesse da parte degli uomini a competere e, nello stesso tempo, maggiore facilità da parte delle donne a mettersi in lizza, mostrando quelle caratteristiche di empatia e interesse per persone e cose, che le caratterizzano anche nel mondo del lavoro.
Ed è proprio questa sotto-rappresentazione delle donne in politica che ha richiamato una particolare attenzione a proposito della elezione del nuovo Capo dello Stato da parte di singole donne (soprattutto giornaliste), da studiosi, ma anche da gruppi di donne la cui voce oggi ha potuto trovare maggiore eco attraverso l’uso dei social.
“Vogliamo una donna al Quirinale” versus “non basta che sia donna”.
Sono questi i due principali slogan che si stanno contrapponendo di fronte all’opportunità di avere una figura femminile al posto di Mattarella, soprattutto considerando che non c’è nessun nome che già occupa una generalizzata attenzione dei “grandi elettori”.
Confesso che spesso mi sono schierata con la prima opzione: ci vuole una donna; certo capace, competente, ma comunque donna. Ed è questa, io credo, in qualche modo la logica delle cosiddette quote rosa: rompere comunque il muro invalicabile delle figure maschili, della cui competenza non ci si preoccupa troppo.
Ma oggi, pensando all’importanza del ruolo politico e simbolico su cui si sta combattendo un’aspra battaglia, scegliere da che parte stare risulta particolarmente complesso. Tanti pensieri, tante contraddizioni mi si affollano alla mente.
Per esempio, mi viene in mente il caso delle donne capo di stato in questo tempo di Covid: l’emergenza ci ha fornito una riprova del valore della leadership femminile. Da più parti abbiamo letto che i paesi al cui vertice si trovano donne sono stati più capaci di far fronte alla pandemia. Danimarca, Finlandia, Germania, Islanda, Nuova Zelanda, Norvegia e Taiwan guidati da donne hanno sperimentato performance migliori dei paesi guidati da uomini.
A quanto pare, indipendentemente dall’essere conservatrici o progressiste (ma le prime sono largamente prevalenti), la presenza stessa delle donne in posizioni decisionali può tradursi in migliori performance economiche, finanziarie e di sostenibilità per le imprese e in un’agenda politica orientata al lungo periodo. E non dimentichiamo che spesso si ricorre alle donne in presenza di situazioni complesse, intricate, difficili da risolvere.
Alcuni elementi dello stile di leadership femminile sono emersi con forza e chiarezza durante questa crisi: dire la verità, usare la tecnologia in modo innovativo, saper comunicare, essere inclusive nel processo decisionale e nella gestione delle informazioni. Sono tutte caratteristiche di una leadership di successo. E molte donne hanno raggiunto in questi anni posizione politiche di vertice svolgendo in modo positivo il proprio ruolo pubblico.
Sono donne coloro che nel giro di 3 anni hanno praticamente occupato tutte le posizioni apicali del potere politico-economico in Europa, sbaragliando i concorrenti maschi.
Forse è questione di meritocrazia – come di recente si è sostenuto – e forse è vero che donne dell’area progressista sono più vincolate da regole interne di partito. Ma io credo ci sia un tema di fondo che accomuna le donne e che oggi deve essere reso esplicito e valorizzato: è il loro rapporto con il potere e soprattutto le differenze e somiglianze tra il potere maschile e il potere femminile che culturalmente si sono radicate nel corso dei secoli.
Alla base di questa argomentazione vi è la costatazione che esistono differenze storiche tra potere maschile e potere femminile sia dal punto di vista soggettivo che nelle modalità di esercizio dello stesso. Queste differenze sono a mio parere interpretabili a partire da tre dicotomie. La prima: gli uomini attribuiscono valore al potere in sé, le donne al contrario hanno bisogno di vedere i risultati del loro lavoro (autoreferenzialità vs concretezza). La seconda: per gli uomini esercitare un potere significa soprattutto esercitare/avere un dominio, le donne invece tendono a ricercare la condivisione (dominio vs condivisione). La terza, infine, inerisce alla ricerca del vantaggio personale e della costruzione di una visione strategica che è propria del potere maschile e che si contrappone al maggiore orientamento agli interessi collettivi e al risultato che è proprio dell’universo femminile (vantaggio personale e visione strategica maschile vs orientamento al risultato e interessi collettivi).
In altri termini, l’ipotesi che intendo sostenere riguarda il diverso significato che la maggior parte degli uomini e delle donne attribuiscono al potere e alla gestione dello stesso. Per la donna il potere si identifica con l'obiettivo da raggiungere, con la scelta professionale: la donna non disgiunge il potere dagli obiettivi. L'uomo invece può, e spesso vuole, fermarsi al potere, può andargli bene l'etichetta vuota. Perché più che la ricerca di un risultato spesso interessa l’esercizio del potere in sé. Le donne, invece, sovente, l'etichetta vuota non la vogliono, perché in essa non si riconoscono. E tendono a mostrarsi più attente all'operatività, al pragmatismo, alla risoluzione dei problemi. Inoltre, spesso sono meno sensibili al fattore di status e più al risultato concreto. Per una donna il potere è quasi sempre uno strumento per poter fornire un contributo, per poter incidere nella società. Per gli uomini, viceversa, il potere è, ed ha, un valore in sé.
Infine per molte donne arrivare al potere non significa gestire un potere. Una donna può arrivare al potere, ma difficilmente diventare una donna di potere. Quello che conta è “il poter fare”, definire obiettivi e, con molto impegno, raggiugerli.
Se quanto detto ha un fondo di verità, a maggior ragione spero in una donna: certo non tutte le donne andrebbero bene; così come, d’altra parte, non tutti gli uomini.
Ma in fondo penso che non mi dispiacerebbe vedere al Quirinale un vestito, una gonna, dei tacchi, e a prescindere da questo un modo di fare più inclusivo, anzichè sempre e solo giacche e pantaloni neri, cravatte e camicie che dalle decisioni tendono ad escludere chiunque non le indossi.
Penso che il simbolismo del ruolo, il suo significato, nonché il contesto generale contribuiscano in ogni caso ad occupare quella posizione con dignità e sobrietà e, perché no?, anche ad aiutare il movimento delle donne, a partire dalle più giovani.
Una donna Capo di Stato rappresenterebbe una figura simbolica, ma anche di potere che darebbe in generale più coraggio, più forza e consapevolezza, più autonomia di pensiero….più autorevolezza. Insomma sarebbe di sicuro uno spintone alla cultura machista ancora imperante nel nostro paese.
Soprattutto, sarebbe (o è) importante che il mondo pubblico, il mondo delle istituzioni facciano un salto di civiltà e di cultura e, allo stesso tempo, che le donne si decidessero una volta per tutte a sostenersi, anche a costo – come si diceva in passato – di “turarsi il naso”. Dando anche il segno di una disponibilità attiva, di sentirsi pronte a competere, anziché chiamarsi fuori e stare zitte.
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