La violenza degli uomini aumenta o diminuisce con l’emancipazione femminile? A partire da una ricerca su 42 mila donne proviamo a dare delle risposte e fare delle proposte
La violenza aumenta o diminuisce con l’emancipazione delle donne? Sta cambiando, abbandonando vecchie forme per assumerne di nuove, e come sta modificando i gruppi a rischio? L’indagine sulla violenza contro le donne condotta nel 2012 dalla Fundamental Human Rights Agency (FRA) è ancora il punto di riferimento per i paesi Europei, Italia inclusa. Ricordiamo che l’indagine è stata condotta su un campione di 42 mila donne dei 28 Stati membri e che non riguarda i femminicidi, bensì tutte le forme di violenza non letale.
L’indagine non dispensa ricette ma offre elementi per una strategia complessiva di policy, suggerendo al contempo che solo la combinazione di politiche ad ampio respiro e di interventi mirati, di misure innovative e di misure consolidate può 'mordere' un fenomeno così complesso. Uno studio basato sui dati FRA di cui abbiamo già parlato su inGenere, analizza in dettaglio il legame fra indipendenza economica e violenza di genere, nonché i principali fattori socio-economici a livello individuale e familiare associati alla violenza, ad esclusione dei femminicidi. È da questo studio che possiamo partire per identificare ambiti e strategie di intervento.
Più istruzione meno violenza, è vero a casa ma non sul lavoro
Le donne sempre più istruite sono più capaci di combattere la violenza, ma solo alcuni tipi di violenza e a parità di altre condizioni, incluso quanto guadagnano, qual è il livello di benessere del nucleo in cui vivono, quanto istruito è il proprio partner o quali sono le abitudini di lui rispetto al bere. Per esempio, le donne con livello di istruzione medio-alto hanno una minore probabilità di subire violenza fisica dal partner e una maggiore probabilità di lasciarlo qualora si riveli violento. Sempre a parità di altre condizioni, le donne più istruite sono anche meno vulnerabili alla violenza sessuale. D’altro canto, però, maggiore istruzione spesso significa interazioni sociali più frequenti, sul lavoro o in altri luoghi pubblici, e quindi maggiore esposizione a molestie sessuali. Per le donne con livello medio-alto di istruzione è stato stimato che la probabilità di aver subito molestie sessuali nei 12 mesi precedenti all’intervista è del 23 per cento rispetto al 19 per cento delle donne con basso livello di istruzione.
Il contrasto fra un effetto positivo e uno negativo legato allo stesso indicatore di emancipazione – l’istruzione – illustra bene come la violenza cambi forma, luoghi e target con il progredire dell’emancipazione, attenuandosi in alcuni casi, forse quelli più gravi, mentre travasa verso altre situazioni. Per ricostruire un quadro completo occorre però rimuovere la clausola 'a parità di altre condizioni'. In tema di istruzione ciò che conta non è solo il capitale umano delle donne, ma anche il livello e la qualità del capitale umano del partner o della società in generale. Che lei sia molto istruita o meno, un lui – marito o fidanzato – con basso livello di istruzione raddoppia il rischio di subire violenza fisica e sessuale. Da qui l’importanza di politiche contro la dispersione scolastica, fenomeno che colpisce soprattutto i ragazzi. Lavorare su qualità, efficacia, capacità inclusiva ed equità del sistema scolastico non significa solo investire sulla produttività del lavoro, ma anche contribuire alla riduzione della violenza di genere. E anche se sembrerà uno slogan generico e consunto, non si può rinunciare a sottolineare l’importanza di un’efficace politica dei contenuti e dei metodi educativi per rafforzare la padronanza delle emozioni, il rispetto dell’altro e delle differenze di genere in particolare. Insomma, politiche di ampio respiro per il miglioramento del capitale umano, ma anche interventi mirati.
Combattere la violenza con l'educazione a scuola
Gli interventi mirati devono iniziare già dalla scuola della primissima infanzia. L’esperienza di violenza infantile, specialmente se ripetuta, è un fattore che interagisce in modo importante con gli effetti dell’emancipazione. Per le donne che riportano più di un episodio di violenza infantile si è stimato che il rischio di subire violenza fisica nell’arco dell’anno che precede l’intervista triplichi rispetto a quelle che riportano livelli analoghi di redditi da lavoro, benessere familiare e istruzione ma non segnalano episodi di violenza infantile. Il rischio di subire molestie sessuali quasi raddoppia, mentre quello di subire violenza sessuale aumenta di ben quattro volte. E come se non bastasse, le donne che hanno subito violenza fisica da bambine hanno anche una minore probabilità di troncare relazioni con partner violenti.
In tale contesto, la scuola può svolgere un ruolo efficace di sentinella. Approfittando del dialogo con i genitori, può anche veicolare principi di puericultura che ricevono un ampio consenso dalla pedagogia psicologica e dalla comunità internazionale. Fra i genitori italiani sono ancora in pochi a credere fermamente che le punizioni corporali e psicologiche possano essere inutili e dannose.
Guadagnare aiuta, ma non guadagnare troppo
Emancipazione economica significa soprattutto un numero crescente di donne che lavorano e portano un secondo reddito a casa, istruite e no. Ancora una volta, però, il legame fra guadagnare in proprio e violenza è ambivalente. Nel complesso l’effetto è di segno positivo, anche se il canale è indiretto. Il reddito di lei è infatti la maggiore garanzia contro il cadere in una situazione familiare di disagio economico, laddove tale condizione aumenta significativamente l’esposizione alla violenza. Rispetto alle donne in famiglie agiate, quelle provenienti da nuclei famigliari in condizioni economiche svantaggiate hanno una probabilità significativamente più alta di aver subito violenza psicologica (dal partner: + 9,5 punti percentuali) o fisica (+2,7 punti percentuali), ma anche molestie sessuali (+5,8 punti percentuali) nell’arco dell’anno che ha preceduto l’intervista.
Se però la donna guadagna 'troppo' c’è il rischio dei colpi di coda. Quei partner che sentono la propria virilità e il proprio ruolo economico minacciati da donne che guadagnano bene tentano talvolta di recuperare status e virilità attraverso la violenza. Non succede frequentemente e soprattutto non riguarda tutti i tipi di violenza, ma una qualche evidenza positiva c’è. Ad esempio, e sempre nel rispetto della clausola di parità di altre condizioni, una donna che guadagna quanto o più del partner ha una probabilità doppia di aver subito violenza sessuale negli ultimi dodici mesi rispetto a una donna che guadagna meno di lui. Per chi disegna politiche contro la violenza di genere la lezione è sempre la stessa: l’emancipazione economica aiuta, ma non risolve i problemi della violenza, anzi può aprire strade a forme più sottili e subdole. Nel caso specifico delle partner che guadagnano bene, possono avere un ruolo politiche di formazione-informazione relativamente a basso costo, ad esempio corsi di informazione o servizi di counseling offerti dalle associazioni professionali, sia quelle che si rivolgono specificatamente alle donne sia quelle aperte a entrambi i sessi.
Per converso, far mancare i propri guadagni può condurre a violenza. Dai tempi della grande depressione sapevamo che uno dei fattori scatenanti della violenza domestica era la perdita di lavoro da parte del partner, soprattutto se inaspettata, ovvero frutto di uno shock economico. Ora sappiamo che anche la perdita del lavoro della donna va annoverata fra i possibili fattori scatenanti, soprattutto se improvvisa. Cosa fare in questi casi? In teoria si potrebbe pensare ad allargare le competenze dei centri per l’impiego ai fini di prevenire la violenza dei loro clienti per eccellenza, coloro che perdono il lavoro. In pratica, una simile proposta non è realistica per il nostro paese dove i centri non riescono a svolgere adeguatamente nemmeno la loro funzione specifica. Questo però non ci deve dissuadere dall’immaginare sistemi di allerta alternativi ma altrettanto mirati. Ad esempio, si potrebbe agire tramite campagne di informazione nelle agenzie di lavoro interinale, nei patronati o nelle sedi territoriali dell’Inps.
La violenza economica è più forte per le migranti
Colpi di coda a parte, dunque, presenza e stabilità di un reddito portato a casa dalla donna servono a contrastare questo o quel tipo di volenza e talvolta più di uno. In Europa le donne appartenenti a minoranze etniche e religiose ne danno prova al contrario. Per queste donne il rischio che il partner impedisca loro di prendere decisioni autonome sui momenti fondamentali attorno a cui ruota l’indipendenza – lavorare o meno fuori casa, occuparsi di finanza famigliare, decidere acquisti ma anche solo vedere amici – è doppio rispetto al resto della popolazione femminile europea. In letteratura si parla di violenza economica a questo proposito, ma nel nostro paese questo tema è praticamente assente dal dibattito sull’immigrazione. Sappiamo bene che il problema dell’immigrazione può coniugarsi perversamente con quello della violenza sulle donne. Da un lato la percezione che le donne italiane rischiano di essere stuprate da maschi extracomunitari fa spesso dimenticare che la violenza sessuale è maggiore fra le mura domestiche. Dall’altro raramente fa capolino nei dibattiti il rischio – questo sì, piuttosto forte, che le donne appartenenti ad alcune minoranze religiose o etniche subiscano la cosiddetta violenza economica. Contiamoci: quante di noi hanno sentito sollevare il problema della violenza economica quando si parla di politiche dell’immigrazione?
Rinnovare le politiche, a partire dai centri antiviolenza
A costo di forzare un po' un quadro complesso e sfumato tiriamo ora le fila da una prospettiva di policy. Da un lato, essere sempre più istruite e guadagnare sempre più spesso in proprio serve a contrastare alcuni tipi di violenza, sempre a patto che le differenze di guadagno o di istruzione non sovvertano troppo gli stereotipi di genere. Dall’altro, l’insidia più diffusa legata all’emancipazione economica si chiama "molestie sessuali" e nasce dal fatto che le donne sempre più popolano spazi pubblici. Tutto ciò richiede di potenziare, ma soprattutto di rinnovare, la cassetta degli attrezzi.
Potenziare e rinnovare è un binomio che ben si addice al vecchio ma ben rodato strumento dei centri antiviolenza. Lo studio sui dati FRA da cui abbiamo tratto l’evidenza per questo articolo suggerisce, fra l’altro, che per le donne vittime di violenza domestica la probabilità di troncare una relazione violenta sale di 9 punti percentuali quando le medesime sono consapevoli che nella loro area operano i centri antiviolenza. Ciò non toglie che i centri antiviolenza vadano adeguati a un ruolo lavorativo che diventa sempre più irrinunciabile. Ricerche condotte in ambito europeo e non ammoniscono che la protezione fisica, il sostegno medico o quello psicologico che i centri possono offrire non bastano. Paradossalmente, la permanenza in un centro può addirittura peggiorare le prospettive future di alcune donne, quelle con figli in particolare. Ciò succede nella misura in cui la permanenza nel centro scoraggia o rende più costoso l’inserirsi o il reinserirsi nel mercato del lavoro gonfiando quindi il rischio di povertà.
Di ciò sono ben consapevoli le operatrici dei centri antiviolenza del nostro paese. Basta una chiacchierata informale con alcune di loro per calare il problema nell’esperienza concreta delle ospiti dei centri. Spesso, raccontano le operatrici, il lavoro di cura o quello domestico sono fra le poche opzioni lavorative effettivamente aperte alle donne del centro. A ciò si aggiunge la difficoltà per le operatrici di assicurare a queste donne continuità lavorativa, strette come sono tra lo Scilla della mancanza di strumenti giuridici e competenze per farlo e il Cariddi di una protezione a termine: spesso la permanenza nel centro è limitata a sei mesi più qualche altro di proroga. Alcuni centri si stanno organizzando. Per esempio, il coordinamento dei Centri Antiviolenza dell’Emilia-Romagna ha attivato un gruppo di orientamento al lavoro e messo insieme un progetto dal nome evocativo – POWER – per facilitare l’inserimento lavorativo delle donne vittime di violenza.
Il problema dell’inserimento, o del reinserimento, nel mercato del lavoro non deve però abitare solo gli spazi protetti dei centri antiviolenza. In una società in cui le donne interagiscono sempre di più con il mondo del lavoro, politiche di contrasto alla violenza devono coinvolgere progressivamente i luoghi di lavoro, quelli della formazione e dell’avvio alle professioni, quelli del reinserimento di chi il lavoro l’ha perso o lo sta cercando. Fra le donne che hanno avuto il coraggio di svelare di aver subito violenza domestica – raccontano studi recenti – quelle che hanno ricevuto supporto nel luogo di lavoro hanno maggiore probabilità di mantenere l’impiego. Ma prima ancora di chiedere che chi gestisce il personale o l’azienda sia formato a dare concreto supporto ai dipendenti vittime di abusi – ad esempio facilitando cambiamenti di orario o di mansione – prima ancora di investire del problema associazioni di categoria, centri per l’impiego e quant’altro, occorre forse chiedere che l’accesso a forme di welfare essenziali – casa, servizi – venga rivisto a favore di chi vuole buttarsi dietro le spalle storie di violenza e ricominciare dall’economia.
Riferimenti
Swanberg, Jennifer, Caroline Macke, and T. K. Logan. 2007. Working Women Making It Work Intimate Partner Violence, Employment, and Workplace Support. Journal of Interpersonal Violence 22 (3): 292–311.
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