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Esce oggi per Fandango Libri In fondo al desiderio. Dieci storie di procreazione assistita di Maddalena Vianello. Pubblichiamo un estratto dall'introduzione, firmata da Barbara Leda Kenny

In fondo al
desiderio

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Foto: Unsplash/ Gabrielle Henderson

Nell’ultimo anno abbiamo avuto un boom delle dimissioni volontarie e un aumento delle donne che chiamiamo “scoraggiate”, quelle che a un lavoro rinunciano definitivamente. Così è che, dopo mezzo secolo di aumento lento ma costante, l’occupazione femminile subisce una battuta d’arresto e oggi, in Italia, lavora meno della metà delle donne (48,5%, dati Istat, febbraio 2021). Lavoriamo poco e male, siamo più precarie, lavoriamo di più al Nord e meno al Sud, tendenzialmente lavoriamo in settori poco remunerati, occupiamo pochissime posizioni di vertice, troppo spesso non abbiamo parola pubblica su economia e politica. Certo, se vivessimo in Svezia le cose andrebbero diversamente, ma viviamo in Italia, in fondo a qualunque classifica europea riguardi il benessere delle donne.

Eppure, non siamo mai state così bene. Nonostante tutte le difficoltà che stiamo affrontando, essere donne non è mai stato meglio di così. Non abbiamo mai goduto di tanti diritti, non abbiamo mai avuto tanti servizi, non abbiamo mai studiato così tanto, né avuto accesso a così tante posizioni importanti. Lo dico perché, anche se non basta, se essere donne è ancora per molti versi una condizione di subalternità, l’autodeterminazione delle donne non è mai stata più in salute che nel presente. Non è solo la nostra entrata in massa nella sfera pubblica a cambiare il gioco, ma è cosa ci aspettiamo da noi stesse. È il modo in cui le ragazze immaginano e pianificano il loro futuro che è cambiato. Le ragazze si impegnano, ottengono i migliori risultati a scuola, studiano di più, sono la maggioranza dei laureati. Le giovani donne vogliono un loro posto nel mondo, non più o non solo nelle case. Questo loro (nostro) desiderio si scontra con la società, che resiste all’onda delle donne che avanza, denuncia, pretende.

Nel bel paese le aspettative culturali sulle madri sono altissime e “sacrificali”, la madre è il bene del bambino e questo si esprime nella quantità di tempo e di abnegazione che la madre dedica. Secondo questo modello, in assenza della madre, il bene del bambino è la nonna. Quando una donna si licenzia entro i primi tre anni dalla nascita di un bambino deve comunicare all’ispettorato del lavoro perché si licenzia. Come prima causa, le donne che danno le dimissioni volontarie indicano la lontananza geografica dei nonni. Questo è un indicatore sia della carenza di servizi di welfare adeguati (i nonni offrono una grande flessibilità oraria), ma soprattutto è un indicatore culturale di come si organizzano le famiglie. Il demografo Gianpiero Dalla Zuanna chiama “famiglia a grappolo” l’organizzazione territoriale delle famiglie italiane dove la maggior parte delle coppie sceglie di vivere nello stesso comune o stesso quartiere dei genitori. La verità è che la maggior parte delle donne quando fa un figlio lo fa soprattutto con sua madre o con sua suocera.

Aspettative così tradizionali e patriarcali creano una collisione tra i figli e il lavoro generando un cortocircuito tra imposizione sociale e desideri delle donne. Il risultato è una sottrazione crescente delle donne dal ruolo riproduttivo. Ambiziose ma precarie, insofferenti alla dipendenza economica, impaurite dal rischio di povertà, le donne rimandano sempre di più la scelta di fare un figlio o decidono di non farne. La matrice della scelta rientra nelle aspettative per se stesse, ma anche in quello che si vuole offrire a un figlio in termini di possibilità economiche e prospettive future. Si è venuta a creare in Italia una correlazione positiva tra lavoro, stabilità, welfare e scelte riproduttive, ossia le donne fanno più figli dove lavorano di più e ci sono più servizi di cura. E contemporaneamente la nascita dei figli implica un’alta probabilità di perdere il lavoro e un alto rischio di povertà. Come a dire che molte donne aspettano di sentirsi economicamente sicure, ma poi, quando lanciano il cuore oltre l’ostacolo scegliendo di fare un figlio, il mercato del lavoro le espelle o perché tenere tutto insieme diventa troppo faticoso o perché vengono licenziate. Due dati eloquenti: dopo il primo figlio perde il lavoro una donna su quattro e le famiglie con figli piccoli sono la maggioranza dei poveri. Il passaggio dalla coppia alla famiglia segna per molte donne la rinuncia, totale o parziale, all’indipendenza e al lavoro e, per molte coppie, il passaggio da due stipendi in due a uno stipendio in tre.

Libere di scegliere? La correlazione positiva tra scelte riproduttive e indipendenza economica è ormai consolidata nei paesi occidentali. Sia che si tratti di avere figli che di non averne. In Italia come in tutti i paesi europei in cui l’occupazione delle donne è bassa (come Grecia o Spagna) non si fanno figli. Il 48,5% è la media nazionale di occupazione femminile ma con fortissimi divari territoriali. Al Sud lavora una su tre e al Nord tre su quattro, con un divario aggiuntivo dovuto alla presenza o assenza di figli e di matrimonio, dove sia i figli che il matrimonio incidono negativamente sull’occupazione delle donne. In generale, c’è una subordinazione delle scelte riproduttive alle condizioni di realizzazione lavorativa. Le donne sanno che le coppie non sono per sempre, anche quando sono sposate, in moltissimi casi decidono di non fare figli se non hanno una propria autonomia e se non hanno realizzato il proprio progetto identitario.

Non è solo una scelta economica, è anche culturale. In un articolo scritto con l’economista Francesca Bettio, riprendevamo l’economista Claudia Goldin adattando al contesto italiano la sua proposta di guardare alla trasformazione silenziosa del ruolo economico delle donne attraverso i concetti di orizzonte, identità e autodeterminazione. Dove “orizzonte” è la scelta di una donna di impegnarsi nella propria istruzione immaginando che questo serva a costruire un proprio spazio nella società, nella sfera pubblica.

“Identità” è il processo per cui costruiamo noi stesse a partire da quello che desideriamo fare, e un dato che ce lo racconta è l’ingresso delle donne in tutte le professioni, rompendo le logiche stereotipate di che cosa una donna può o non può fare. “Autodeterminazione” è la libertà di scegliere per noi stesse e non in subordine a qualcun altro. La maternità in Italia spesso implica la rinuncia all’autodeterminazione, significa non entrare nel mercato del lavoro, o accettare un part-time involontario o la perdita del lavoro con un rischio altissimo di fuoriuscita dal mercato del lavoro, può significare accettare la mobilità territoriale determinata dal lavoro del partner.

La maternità significa ancora, in moltissimi casi, accettare una situazione di dipendenza e quindi di subordinare le proprie scelte economiche a quelle dell’altra persona. Non fare figli, farne pochi, farli dopo i 30 o i 40 anni, non è una scelta necessariamente dettata dal desiderio, ma sicuramente è una forma di risposta all’insostenibilità di una società che, proprio nel nome della madre, limita le possibilità delle donne di realizzarsi.

Secondo uno studio di Maria Letizia Tanturri e Letizia Mencarini, sono prevalentemente le laureate senza figli a esplicitare consapevolmente il fatto di non volerne e a non contemplare la maternità nel proprio progetto di vita. “Le donne childfree, più delle altre, rifiutano le norme culturali tradizionali e adottano, di conseguenza, comportamenti meno tradizionalisti. Per esempio sono meno religiose, o hanno scelto la convivenza piuttosto che il matrimonio come prima unione. Sono anche donne meno sensibili alle politiche basate solo su aiuti economici, perché il fattore economico non è prevalente nella loro scelta. Credono, infatti, che i costi dei figli non siano solo di natura finanziaria, ma soprattutto incidano sul tempo e sullo stile di vita. Evitare intenzionalmente la maternità è spesso il risultato di avere altre priorità, come la ricerca della realizzazione personale attraverso una relazione e la carriera, e il non essere disposte ad accettare i sacrifici che la maternità comporta” (Minello, Meli, Tocchioni).

Insomma, per molte la via dell’autodeterminazione va in un’altra direzione rispetto alla maternità. Per altre, questo è vero solo per un periodo della loro vita, poi decidono che invece i figli li vogliono e in molti casi questo apre al capitolo successivo, ossia alla possibilità che questa scelta avvenga dopo i 35 anni, quando la fertilità può diventare un problema. 

Come abbiamo detto, la scelta di una maternità è una scelta che mette a rischio la nostra autodeterminazione, quindi molte donne la rimandano al momento in cui sentono di avere uno spazio reale. E quel momento può essere biologicamente troppo tardi. I dati del ministero della salute ci dicono che il 15% delle coppie incontrano un problema di fertilità. Dato ancora più alto secondo gli specialisti che hanno partecipato all’indagine Censis sulla fertilità in Italia (2017), secondo i quali l’infertilità riguarderebbe il 20-30% delle coppie italiane. Tra queste, quasi il 70% con età compresa tra i 35 e i 40 anni. L’età non è l’unico fattore della sterilità, vale la pena accennare anche solo in volata ai fattori ambientali come l’inquinamento, l’uso di ormoni e pesticidi negli allevamenti e nelle coltivazioni, le materie plastiche inquinanti, che incidono sulla fertilità e sono largamente sottovalutati.

Il riferimento per le tecnologie assistite è la legge 40 del 2004. Una legge con moltissimi vizi ideologici di matrice cattolica che negli anni sono stati smontati in tribunale uno a uno. La legge prevedeva inizialmente il divieto di diagnosi preimpianto volto a verificare malattie ereditarie o genetiche, il divieto di crioconservazione, l’impianto unico e contemporaneo di massimo tre embrioni, l’accesso alla fecondazione solo alle coppie di sesso opposto la cui sterilità fosse accertata, vietava la donazione degli embrioni alla ricerca, divieto di fecondazione eterologa (ossia in cui l’ovulo o lo sperma o l’embrione sono esterni alla coppia).

Tutti questi vincoli sono caduti in tribunale, ultimo in ordine di tempo il divieto di fecondazione eterologa, cinque anni fa, ma l’unico a non cadere è che bisogna essere una coppia eterosessuale per accedere alle tecnologie di riproduzione assistita. Perché le istituzioni italiane sono molto favorevoli all’aumento della natalità, buon proposito ricorrente nella retorica politica, ma sono ancora più impegnate nella difesa del modello di famiglia aspirazionale e tradizionale. Quindi i diritti riproduttivi sono tutti, la fecondazione come l’adozione, appannaggio delle coppie eterosessuali e non delle singole cittadine e dei singoli cittadini.

Questa limitazione non è particolarmente efficace, molte persone si rivolgono all’estero dove i diritti sono più ampi. Donne single e coppie lesbiche si rivolgono a cliniche in paesi come Spagna, Danimarca, Regno Unito, gli uomini single e le coppie gay vanno in paesi dove la gestazione per altri è permessa. In questo modo quello che dovrebbe essere un diritto diventa il privilegio di chi può permettersi di pagare servizi riproduttivi all’estero.

In generale, mentre le politiche della prevenzione e dell’interruzione di gravidanza fanno parte del dibattito femminista, sulle tecniche di fecondazione assistita ci sono invece poche riflessioni e poca elaborazione di pensiero. Di conseguenza chi intraprende questo percorso si ritrova da sola a interrogarsi sui limiti e prendere decisioni o, peggio, lasciata in compagnia della retorica istituzionale e patriarcale tesa alla colpevolizzazione delle donne.

Qualcuna ricorda la campagna del Fertility Day? Tra gli slogan della campagna promossa dal ministero della salute nel 2016 c’erano “la bellezza non ha età, la fertilità sì” e “la fertilità è un bene comune”: colpevolizzazione delle donne e maternità come missione per la patria in salsa tricolore.

Per questo il libro che avete in mano è prezioso. A partire dai vissuti reali delle donne che hanno condiviso le loro storie vivrete gli interrogativi, le scelte, le riflessioni che affrontiamo quando ricorriamo alle tecnologie riproduttive. Avere una riflessione condivisa ci aiuta a capire meglio di cosa abbiamo bisogno, a mettere a fuoco come dovrebbe essere un servizio pubblico che ci permette di realizzare il desiderio di maternità. Questo percorso le donne lo hanno fatto per l’educazione di genere, per l’interruzione di gravidanza, per l’accompagnamento al parto e per il parto. Credo che sia giunta l’ora di farlo anche per la fecondazione assistita, che non può e non deve rimanere fuori dalle riflessioni politiche.

Da 'In fondo al desiderio. Dodici storie di procreazione assistita' di Maddalena Vianello, Fandango Libri, 2021, per gentile concessione dell'editore.

Il libro verrà presentato per la prima volta giovedì 16 settembre alle alle 19.00 presso la Libreria Tuba di Roma.