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Genere e guerra si intrecciano indissolubilmente nell'analisi della sociologa Cinzia Solari, tra le massime esperte di Ucraina ed ex-Urss, che individua nell'attacco di Putin la promessa globale di una nuova modernità, fondata sulla salvaguardia della maschilità virile e omofoba

Geopolitica
dell'omofobia

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Foto: Unsplash/Vitaliy Shevchenko

In tempi di guerra, le analisi di genere, già di solito tenute a margine del pensiero geopolitico, sono spesso considerate superflue. Quando mi chiedono, in quanto sociologa femminista esperta di Ucraina e di ex Urss, di commentare l’invasione russa dell’Ucraina, i miei interlocutori si aspettano che io parli delle donne prima come vittime, poi come resistenti emancipate. A mio avviso tuttavia, una prospettiva di genere in questo caso rivela soprattutto che la guerra della Russia all’Ucraina è parte significativa di un progetto alternativo di “modernità della virilità” che – a dispetto della rappresentazione del presidente Vladimir Putin come di un dittatore solitario e potenzialmente matto veicolata dai media occidentali – offre puttosto una visione del mondo allettante per molti, in diversi posti del mondo. Forse sarò criticata per un pezzo ampiamente incentrato sulle strategie messe in atto dalla Russia per legittimare il suo attacco all’Ucraina e quella che di fatto rappresenta la prima annessione di territori sovrani in Europa dalla Seconda guerra mondiale, ma spero che il mio libro sulla costruzione di uno stato-nazione di stampo transnazionale in Ucraina, che include una discussione sull’annessione russa della Crimea nel 2014, possa aprire uno spazio per l’argomentazione che segue. 

Donne vittime e donne emancipate

Nel gruppo “donne-vittime”, i miei interlocutori si aspettano una discussione su come la guerra gravi in maniera sproporzionata su donne e ragazze. La brutta situazione delle 26.5000 donne ucraine incinte al momento dell’invasione russa ha ricevuto attenzione internazionale dopo la distruzione del reparto maternità dell’ospedale di Mariupol, bombardato dai russi a soli 19 giorni dall’invasione, sebbene la guerra fosse in corso fin dall’annessione della Crimea nel 2014. Le donne hanno partorito nei sotterranei della metropolitana di Kiev mentre insieme ai loro figli cercavano riparo dalle bombe. Un rapporto delle Nazioni Unite ha osservato che le famiglie guidate da donne, già prima della guerra più vulnerabili dal punto di vista alimentare, hanno sofferto ulteriormente di insicurezza alimentare e malnutrizione per l’aumento del divario di genere. Lo stesso rapporto mostra che la crisi alimentare non riguarda solo le donne ucraine, ma anche quelle di oltre 120 paesi fra Africa, Asia, America Latina e Medioriente, a cui il World Food Programme offre assistenza alimentare basata sul grano ucraino.

Tutti si aspettano che io parli delle politiche e delle pratiche di genocidio incluso l’uso dello stupro come arma e delle atrocità di Buča. O che parli delle ingiustizie razziali, di classe e di genere dell’industria ucraina della maternità surrogata, esacerbate dalla guerra.

Nel gruppo “donne emancipate”, chi mi intervista si aspetta che ricordi la donna ucraina che ha detto al soldato russo “mettiti questi semi in tasca così quando morirai cresceranno dei girasoli” – il girasole è il fiore nazionale dell’Ucraina e un simbolo della resistenza ucraina. Potrei commentare il ruolo di First Lady di Olena Zelenska nel perorare la causa dell’Ucraina di fronte all’Occidente. Secondo Vogue, è diventata “il volto della sua nazione – un volto di donna, di madre”.

Potrei spiegare che l’Ucraina ha una storia di donne soldato, che alcuni studiosi citano come prova di una tradizione femminista, e far notare che il 25% delle forze armate ucraine è costituito da donne.

Potrei attingere al mio libro, On the Shoulders of Grandmothers: Gender, Migration, and Post-Soviet Nation-state Building, in cui sostengo che le donne migranti di mezza età stanno fabbricando la “nuova” Ucraina in senso transnazionale e con un occhio all’Europa, commentando così la tenacia e la forza delle donne ucraine e il ruolo della migrazione in questo conflitto. Del resto l’ho fatto.

Tutto è importante per comprendere le dinamiche di questa guerra. Tuttavia, sostengo che un’analisi di genere ci chieda non soltanto di considerare le esperienze distinte dei gruppi coinvolti, ma anche come l’individuazione dei nessi tra sesso, genere e sessualità possa legittimare e accreditare l’invasione russa dell’Ucraina come parte integrante di un progetto imperiale. Benché interessante, la discussione sull’Ucraina come baluardo della democrazia contro il fascismo o nichilismo russo non coglie l’attrattiva di genere che la visione imperiale di Putin può contenere. E quello di Putin è un progetto geopolitico che ha soprattutto a che fare con genere e sessualità, perché formula e promuove una modernità che mette al centro la virilità come principio opposto alla “donna emancipata” messa al centro dalla modernità occidentale. I paesi in Africa e in Medio Oriente o le grandi democrazie come l’India che rifiutano di condannare la guerra della Russia non stanno scegliendo il fascismo russo; quel che trovano allettante è il suo modello alternativo di modernità, un modello che ha a che fare col genere. E questa idea alternativa di modernità basata sulla virilità fa presa anche sulla destra conservatrice dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti.

Liquidare la retorica di Putin come folle, nichilista, o fascista, significa ignorare il fascino che questo modello alternativo di modernità può avere, e significa farlo a nostro rischio e pericolo.

Omofobia, valori tradizionali, e annessioni

Il 30 settembre 2022, durante una cerimonia al Cremlino, Putin ha tenuto un discorso per annunciare l’annessione alla Russia di quattro regioni ucraine – Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson. In quell’occasione, ha invitato Kiev e i “suoi padroni occidentali” a riconoscere nelle regioni annesse i referendum popolari – considerati illegittimi in Ucraina come in occidente – come desiderio del popolo di “tornare alla sua vera, storica patria”.

Putin ha ricordato alla folla che la Russia è una “nazione-civiltà” in opposizione all’“Occidente collettivo” che “divide sfacciatamente il mondo tra: i suoi vassalli, i cosiddetti paesi civili e tutti gli altri”, classificando le nazioni in primo e terzo mondo cosicché “i razzisti occidentali … aggiungerebbero [la Russia] alla lista dei barbari e dei selvaggi”. Putin e molti russi considerano il genere e la sessualità come la linea che separa le nazioni considerate “moderne” da quelle considerate “arretrate”.

Nel nostro prossimo libro, The Gender Order of Neoliberalism (Polity Press), con la sociologa femminista Smitha Radhakrishnan sosteniamo che dagli anni ’70 in poi gli stati nazione manifestano la loro modernità rispondendo alla domanda “come tratti le tue donne?”. Oggi la domanda è “come tratti i tuoi cittadini Lgbtq+?”. La Russia segna una linea di demarcazione fra “l’Europa gay”, che abbrevia in “Gayropa”, e la svolta post-2013, con cui la Russia si è fatta protettrice dei “valori tradizionali”. Putin ha proseguito il discorso dell’annessione dei territori ucraini alla Russia chiedendo a “tutti i cittadini russi”:

Vogliamo forse, nel nostro paese, in Russia, genitore numero uno, numero due, numero tre invece di mamma e papà – sono per caso impazziti là fuori? Vogliamo che certe perversioni tese al degrado e all’estinzione siano imposte ai bambini delle nostre scuole fin dalla scuola primaria? Che gli si metta in testa che ci sono vari presunti generi oltre a quello femminile e maschile, che gli si prospettino operazioni di cambio di sesso? Vogliamo questo per il nostro paese e per i nostri figli? Per noi è inaccettabile, abbiamo un futuro diverso, un futuro nostro. Ripeto, la dittatura delle élite occidentali mira a tutte le società, inclusi i popoli degli stessi paesi occidentali.

Qui Putin, come già in altri discorsi, suggerisce come l’apertura alle categorie Lgbtq+ sia un tratto distintivo della modernità occidentale e un rischio nazionale per la Russia e il mondo post-sovietico. Nella Russia e in tutta la regione interessata dal calo della natalità seguito al collasso sovietico, le persone gay e di genere non conforme sono descritte come agenti dell’imperialismo occidentale – spie dell’Occidente mandate a distruggere l’etno-nazione. Perciò, da quando Putin è tornato in carica nel 2012, le persone Lgbtq+ in Russia sono diventate il suo bersaglio preferito. Lo studioso di genere Emil Edenborg sostiene che per Putin l’omofobia è geopolitica. Così come le potenze occidentali si servono di discorsi sulla modernità incentrati su “salvare le donne” per legittimare le loro incursioni militari all’estero, la Russia usa omofobia e motivazioni come “proteggere i valori della famiglia” per legittimare l’invasione di Putin in Ucraina. 

Benché l’Ucraina, come gran parte di Europa e Stati Uniti, non sia un baluardo dell’accettazione queer, ucraini come Vlad Shast (persona non binaria), componente di spicco della comunità queer di Kiev che lavora come stylist e si esibisce come drag queen “in abiti rosa attillati e stivali a metà coscia”, sono per la Russia figure che legittimano l’invasione dell’Ucraina, corrotta dalla Gayropa, proprio come l’immagine delle donne col burqa era usata dagli Stati Uniti per giustificare l’azione militare in Afghanistan e in Iraq.

Non solo, dunque, Putin vede nella diffusione dell’“ideologia del gender” una minaccia alla sicurezza nazionale di Russia e Ucraina, ma dice anche che le “élite occidentali” si sono messe contro “i popoli degli stessi paesi occidentali”. L’Occidente insomma, può anche classificare la Russia fra le nazioni “barbare”, ma Putin crede che la Russia adempirà alla sua storica, messianica, missione di salvare l’Europa e l’Occidente dalla sua stessa degenerazione caratterizzata da immoralità sessuale e dissoluzione dell’“ordine naturale dei generi”.

La missione della Russia, in altre parole è quella di salvare l’Europa da se stessa, offrendo al mondo una modernità alternativa incentrata su “virilità” e “famiglia tradizionale”. Ma come possono omofobia e “valori tradizionali” essere presentati alla stregua di valori “moderni”? L’unico modo per comprenderlo è risalire al contesto della guerra fredda e della caduta dell’Urss. 

La promessa di una modernità alternativa

Durante la guerra fredda, la corsa alla modernità s’incentrava sulla dimostrazione da parte degli stati nazione di aver “liberato le donne”. L’Occidente si preoccupava che l’Unione Sovietica, con le donne a tassi di laurea altissimi e quasi massimi di partecipazione al lavoro, vista anche la gamma invidiabile di servizi statali che permettevano loro di lavorare e studiare, potesse “vincere” questa competizione di status all’interno della gerarchia globale delle nazioni.

Le rivendicazioni di modernità e le nozioni di progresso storico costituiscono una risorsa politicamente potente e sono al cuore della politica del potere globale. Sono state usate per giustificare il controllo e la violenza verso i popoli colonizzati e verso le minoranze interne; gli ucraini percepiscono la loro relazione con la Russia nel primo modo, i russi percepiscono la relazione con l’Ucraina nel secondo.

In On the Shoulders of Grandmothers, dico che con la svolta neoliberale dell’ex Urss, molti stati post-sovietici, Ucraina inclusa, hanno deciso che le politiche sovietiche e i meccanismi di supporto volti a favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro (lauti servizi per la maternità, assistenza all’infanzia gestita dallo stato, mense collettive) erano troppo costosi per dei paesi che volevano essere competitivi a livello globale. Dopo tutto, l’Occidente queste attività le chiamava semplicemente lavoro domestico e le sue donne lo facevano gratis. 

Così, questo lavoro è tornato sulle spalle delle donne. Senza forme di assistenza privata all’infanzia (o un movimento che investisse gli uomini delle responsabilità di cura), per le donne post-sovietiche l’accesso materiale al mercato del lavoro retribuito è diventato sempre più incerto. Al tempo stesso, i mercati capitalistici si caratterizzavano come un settore maschile inadatto alle donne. Il discorso post-sovietico dà a intendere che l’Unione Sovietica aveva reso le donne “troppo emancipate” a spese dei maschi, avendo di conseguenza “donne mascoline” e “uomini effemminati”, una distorsione della biologia che ha portato alla caduta dell’Urss. In questo contesto, possiamo capire perché il discorso sui “valori della famiglia tradizionale” possa prendere piede.

In Ucraina così come in Russia la parità dei sessi e l’ordine dei generi sovietico “hanno fallito”. Sebbene l’Occidente promuova l’idea che il capitalismo porti all’“emancipazione delle donne” semplicemente includendole nel mercato capitalistico, nel mondo post-sovietico ci si aspetta che il capitalismo salvi gli uomini che soffrono la disoccupazione, l’emarginazione in famiglia, e la cui aspettativa di vita è in calo tanto drastico che la sociologa ucraina Tatiana Zhurzhenko definisce “specie in pericolo” gli uomini ucraini. 

Se l’ugualitarismo di genere è stata una politica fallimentare del passato, “i valori della famiglia tradizionale” possono essere visti come una modernità alternativa da declinare al futuro. Se in passato lo stato sovietico metteva al centro le politiche a sostegno della “liberazione” delle donne, il futuro mette al centro gli uomini e la “ri-mascolinizzazione”. Se la Russia, dopo il collasso del welfare sovietico, non può più vincere la gara per la modernità sulla base di come tratta le donne e le persone trans e non binarie, allora spostare il terreno della competizione sulla virilità aumenta le sue chance. 

Un esempio di questa gara a chi e, per estensione, a quale stato-nazione sia più “virile”, si può vedere sui social. Nel 2016 il vice primo ministro russo Dmitrij Rogozin ha twittato un’immagine del presidente Putin intento ad accarezzare un leopardo e accanto una del presidente degli Stati Uniti Obama con in braccio un barboncino, commentando: “abbiamo valori diversi”. Ha anche twittato l’ormai emblematica foto di Putin a torso nudo sul cavallo siberiano.

Questa modernità alternativa incentrata sulla virilità fa presa sulle popolazioni dei luoghi più disparati. L’ascesa in diverse parti del mondo di “uomini forti” e autocratici, che gareggiano a chi è più misogino, omofobo, transfobico, guerrafondaio e brutalmente repressivo – pensiamo a Lukashenko in Bielorussia, Bolsonaro in Brasile, Berlusconi in Italia, Modi in India, Duterte nelle Filippine, Erdoğan in Turchia, Trump negli Stati Uniti, giusto per nominarne alcuni – indica che ci sono tanti giocatori intenti a ridefinire le regole con cui gli stati-nazione rivendicano le risorse politiche che questa modernità alternativa rende possibili.

Con l’invasione dell’Ucraina, Putin propone la Russia come leader di una rete conservatrice transnazionale che gli consenta di creare alleanze con le fazioni conservatrici delle potenze occidentali, ma anche con gli stati postcoloniali del Sud del mondo, di cui l’Unione Sovietica durante la guerra fredda supportava i movimenti di liberazione. 

In occidente assistiamo all’orrore e alla brutalità del tentativo russo di tenere con la forza l’Ucraina fuori dall’Europa e sotto il suo repressivo controllo, ma è utile individuare qual è la posta in gioco in primo piano in questa guerra. Una prospettiva di genere concentra l’attenzione sui crimini di guerra della Russia e sulla morte e la sofferenza umana patite dall’Ucraina, nazione pacifica che cerca, nel suo edificarsi come stato-nazione, di costruirsi come “moderna” seguendo – nel bene o nel male, a volte meglio o peggio – le regole europee della modernità.

E anche se il mondo starebbe meglio se abbandonassimo del tutto i discorsi coloniali su modernità e progresso, l’Europa e gli Stati Uniti non possono ignorare che la modernità proposta da Putin ha trovato terreno fertile proprio intorno al discorso sulla virilità.

Questo articolo è stato ripubblicato e tradotto dalla versione originale comparsa nel numero di Gennaio 2023 di Footnotes magazine, la rivista online dell'American Sociological Association che ringraziamo per la concessione. Tutti i diritti sono riservati

Traduzione a cura di Sara Concato.

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