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Con il passaggio al sistema retributivo il gap di genere nelle pensioni ha ripreso a crescere in termini percentuali e ha rallentato fortemente la discesa in termini assoluti. Due esperti invitano a riflettere sull'impatto che la legge di bilancio avrà su questo divario

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Foto: Unsplash/ Robin Spielmann

Nel dibattito politico degli ultimi mesi sulla riforma delle pensioni è tornata di nuovo in auge l’annosa questione del gender gap pensionistico dovuto alla disparità di genere nel mercato del lavoro e alle caratteristiche del sistema pensionistico che sono spesso penalizzanti per le lavoratrici. 

È stato più volte raccomandato di analizzare il gender gap pensionistico prendendo in considerazione informazioni dettagliate sulle scelte effettuate nel mercato del lavoro e sulle condizioni di pensionamento. È evidente infatti come il gap di genere si modifichi sensibilmente al variare del tipo di pensione (superstite, anzianità/anticipata, vecchiaia, ecc.), della coorte di appartenenza, del criterio di calcolo della pensione e della carriera contributiva dei pensionati.

L’analisi della dinamica del gender gap pensionistico, per coorti comprese tra il 1940 e il 1970, è stata oggetto di un recente studio che abbiamo condotto nel 2021 utilizzando dati reali sulla carriera contributiva degli individui presenti nel database SHARE (Survey of Health, Ageing and Retirement in Europe). L’analisi è stata effettuata prendendo in considerazione esclusivamente la prima pensione percepita da coloro che avevano i requisiti di accesso per la pensione di anzianità/anticipata o pensione di vecchiaia. In tal senso, l’analisi prescinde dall’impatto delle misure di natura prevalentemente “assistenziale” (reversibilità, pensione sociale, ecc.), per concentrarsi sul gender gap di natura più strettamente “previdenziale” attraverso il riferimento alle sole pensioni maturate per requisiti di anzianità contributiva e/o età anagrafica.

Per garantire condizioni minime di omogeneità, la popolazione iniziale è stata disaggregata per coorte di appartenenza e anno di pensionamento, per cui sono stati analizzati tre gruppi: il gruppo dei nati tra il 1940 e il 1949 (che hanno percepito la prima pensione tra il 1980 e il 2009), il gruppo dei nati tra il 1950 e il 1959 (che hanno percepito la prima pensione tra il 2010 e il 2019), e il gruppo dei nati tra il 1960 e il 1969 (che hanno percepito la prima pensione tra il 2020 e il 2027).

La rincorsa iniziale a beneficio delle coorti più vecchie. In termini percentuali è emerso che il gender gap pensionistico si è sensibilmente ridotto con il passaggio dalla coorte 1940-49 alla coorte 1950-59. Mentre le donne appartenenti alla prima coorte percepivano una pensione inferiore di ben 29 punti percentuali rispetto alla pensione media degli uomini, con il passaggio alla seconda coorte si osserva una riduzione del gap pari a 9 punti percentuali, raggiungendo in tal modo il 18% (linea blu in Figura 1).

L’analisi ha anche consentito di quantificare il contributo del miglioramento delle condizioni delle donne nel mercato del lavoro, nonché il contributo dell’applicazione di un sistema di calcolo, quello retributivo, con una componente redistributiva. In particolare, è stato osservato che, per ben 6 dei 9 punti percentuali in questione, la riduzione del gender gap è frutto del miglioramento delle condizioni di reddito e di anzianità contributiva delle donne a partire dagli anni 60 e fino alla fine degli anni 90.

La restante riduzione di 3 punti percentuali è invece imputabile all’applicazione prevalente del sistema di calcolo retributivo, per sua natura redistributivo (tetti massimi, coefficienti fissi progressivi, ecc). In tal senso, le donne, avendo accumulato in media una quantità di contributi inferiore a quella degli uomini, risultano tra coloro che hanno beneficiato dell’applicazione delle misure redistributive del “vecchio” sistema di calcolo.

Il successivo arretramento a carico delle coorti più giovani. Il trend virtuoso di riduzione del gender gap sembra essersi invece interrotto con il passaggio dalla coorte 1950-59 a quella 1960-69. In questa ultima fase, infatti, il gender gap calcolato sulla prima pensione mostra una inversione di tendenza, con una crescita di un punto percentuale dall’iniziale 18% al 19%.

Figura 1. Gender gap al pensionamento (per anno di nascita e anno di pensionamento)

Fonte: elaborazionE degli autori (Abatemarco e Russolillo, 2021)

Nel caso specifico, è stato evidenziato che l’aumento di 1 punto percentuale del gender gap è il risultato della riduzione di 1 punto percentuale per miglioramento delle condizioni delle donne nel mercato del lavoro e dell’aumento di ben 2 punti percentuali per la progressiva sostituzione del sistema pensionistico retributivo con quello contributivo. Pertanto, la transizione progressiva dal sistema di calcolo retributivo, con la sua componente redistributiva, a quello contributivo, maggiormente ispirato a un criterio di equità attuariale, ha inevitabilmente inciso negativamente su coloro che hanno accumulato un montante contributivo minore, ovvero sulle donne.

Se però ragioniamo in termini assoluti (linea arancione della Figura 1) il differenziale fra quanto percepisce in media una pensionata e quanto riceve un pensionato continua a ridursi anche fra le coorti più giovani, passando da un gap di 4709 euro per i nati nel 1950-59 ad un gap di 4388 euro per i nati nel 1960-69, con una riduzione di 321 euro su base annuale. La contraddizione fra quanto è successo al differenziale in termini percentuali e quello in termini assoluti è solo apparente: il passaggio al sistema contributivo comprime tutte le pensioni verso il basso, e inevitabilmente la fetta tagliata è più grande per le pensioni più generose.   

L’aspetto finale che l’analisi ha permesso di cogliere riguarda l’impatto, per lo più trascurato, dell’applicazione del sistema di calcolo pro-rata (o misto) sul gender gap pensionistico. Secondo il sistema pro-rata introdotto con la Riforma Dini (L. 335/1995), per i lavoratori che avevano raggiunto meno di 18 anni di contribuzione nel 1995, il calcolo della pensione avviene applicando il sistema retributivo per gli anni di contribuzione fino al 1995 e il sistema contributivo per gli anni successivi al 1995.

A parità di coorte e anno di pensionamento, il gap pensionistico aumenta con l’applicazione del pro-rata a causa della carriera contributiva maggiormente discontinua delle donne, soprattutto nei primi anni dell’attività lavorativa. Per coloro che ricadono nel sistema pro-rata (misto), la perdita dei primi anni di contribuzione (per ingresso tardivo nel mercato del lavoro, family caring, maternità,  ecc..), si traduce inevitabilmente in una ridotta applicazione pro-rata del sistema di calcolo retributivo che, ovviamente, penalizza in media le donne più degli uomini.

In conclusione, con il passaggio al sistema retributivo, la disparità pensionistica di genere ha ripreso a crescere in termini percentuali e ha rallentato fortemente la discesa in termini assoluti. Ciò offre uno spunto di riflessione non trascurabile sulla legge di Bilancio 2022 che  proroga l’Opzione Donna e si limita a ridimensionare ‘Quota 100’ trasformandola in ‘Quota 102’.

Come è noto, mentre Quota 100, che è stata prevalentemente utilizzata dagli uomini, non prevede penalizzazioni gravose, Opzione donna prevede, per le donne che hanno deciso e decideranno di uscire anticipatamente dal mercato del lavoro, l’applicazione del sistema contributivo a tutti i risparmi previdenziali versati durante la carriera lavorativa. Entrambe le misure godono di ampio consenso, ma, a nostro giudizio, va posta maggiore attenzione al fatto che prorogarle significa assecondare la tendenza del gap di genere a riaprirsi. Contemporaneamente andrebbero considerate misure più incisive per la valorizzazione a fini pensionistici delle interruzioni di contribuzione delle donne per maternità e lavoro di cura familiare. 

Riferimenti

Abatemarco A., Russolillo M, “The Dynamics of the Gender Gap at Retirement in Italy: Evidence from SHARE”, Pensions Institute Discussion Paper no. 2105, City University of London, 2021