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Il difficile passaggio dalla scuola al lavoro ha caratteri molto diversi nei differenti sistemi europei.  In molti paesi (ma non l'Italia) le giovani donne si inseriscono meglio e prima nel lavoro. Ma  questo stacco iniziale viene vanificato nel giro di pochi anni da pregiudizi culturali e assenza di servizi.

Il merito non paga
le lavoratrici giovani

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In ogni paese del mondo, la transizione dalla scuola al lavoro è una delle fasi più delicate della vita. Le cause delle difficili transizioni dalla scuola al lavoro sono senz’altro molteplici, ma si può dire che l’origine del problema è da ricercare nella carenza da parte dei giovani, anche in presenza di crescenti livelli di istruzione, di una componente importante del capitale umano, vale a dire l’esperienza lavorativa[1]. È proprio l’esigenza di superare il gap che li separa dagli adulti a spiegare la tendenza dei giovani a “sperimentare” nel mercato del lavoro frequenti passaggi da uno stato all’altro. Questo processo di job shopping porta i più fortunati verso un approdo lavorativo stabile e sicuro, ma spinge i meno qualificati, meno forti e meno motivati a muoversi senza sosta da una posizione all’altra.

Cosa si può fare per aiutare i giovani? Il dibattito si è concentrato su misure ritenute, forse erroneamente, alternative fra loro. Chi segue un approccio liberista rileva l’esigenza di accrescere il grado di flessibilità nel mercato del lavoro, anche attraverso i lavori temporanei, per aumentare la probabilità dei giovani di trovare presto un posto di lavoro e acquisire così l’esperienza lavorativa di cui hanno bisogno e senza la quale sono in posizione di svantaggio rispetto agli adulti, nonostante il crescente livello di istruzione delle nuove generazioni.

Chi dubita della capacità del mercato di risolvere da solo il problema giovanile critica sia la flessibilità in entrata, che riguarda solo chi trova lavoro ma non chi già lavora, che i contratti temporanei. La prima aiuta chi ha già una maggiore motivazione e un livello d’istruzione più alto. Il lavoro temporaneo, inoltre, permette di accumulare esperienza lavorativa generica, ma non specifica al posto di lavoro. La soluzione per consentire ai giovani di superare il divario di esperienza lavorativa che li separa dagli adulti è invece un policy mix nel quale la flessibilità nel mercato del lavoro sia accompagnata non solo da maggiori garanzie reddituali e previdenziali che spingano ad un uso non abnorme di questi contratti di lavoro, ma anche da un’istruzione di qualità per un numero maggiore di giovani di quanto non sia oggi e da un sistema evoluto di formazione professionale, sottoposto a una continua valutazione di efficacia. In altri termini, occorre, da un lato, secondo l’approccio della flessicurezza, accrescere il costo del lavoro temporaneo, per scoraggiarne gli abusi da parte dei datori di lavoro, e, dall’altro lato, accrescere la capacità dei giovani di trovare lavori di qualità, fornendo loro una migliore istruzione e formazione professionale.

Lo studio delle differenze fra paesi può aiutare a comprendere meglio le cause sistemiche della disoccupazione giovanile. In effetti, esistono diversi regimi di transizione dalla scuola al lavoro nell’Unione Europea che, come è facile intuire, si sovrappongono ai sistemi di welfare state. Si può parlare, infatti, di un sistema "europeo mediterraneo", che comprende Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna, nel quale la gestione del problema viene demandata alla famiglia e, di recente, al mercato attraverso le riforme ai due livelli, vale a dire riforme che accrescono la flessibilità solo per i nuovi entranti e non anche per gli occupati, e, in particolare, il lavoro temporaneo. Il secondo sistema è quello cosiddetto "europeo continentale", che comprende Austria, Danimarca, Germania e Olanda. La forza di questo sistema il cui mercato del lavoro è molto rigido va ricercata nella forte presenza dello stato e degli attori sociali nell’organizzazione di un sistema d’istruzione di tipo duale che, attraverso l’apprendistato, garantisce la formazione professionale accanto a quella teorica, anziché dopo. Il terzo sistema è quello "scandinavo", che comprende Finlandia, Norvegia e Svezia, e punta sulle politiche attive per l’impiego, soprattutto la formazione professionale, come strumento per fare acquisire esperienza lavorativa ai giovani. Il quarto sistema è quello “liberale”, tipico della tradizione anglosassone, che punta molto sulla flessibilità del mercato del lavoro, ma anche sulla qualità del sistema di istruzione, spesso ben collegato al mercato del lavoro attraverso i servizi di job placement. Infine, ci sono i nuovi paesi membri dell’Unione Europea, che hanno un passato socialista comune e hanno sperimentato un analogo, drammatico processo di transizione dall’economia di piano a quella di mercato.

Può essere interessante confrontare la performance di questi paesi. Il tasso di disoccupazione giovanile è l’indicatore più comunemente adottato per misurare lo svantaggio assoluto dei giovani. Il rapporto fra il tasso di disoccupazione dei giovani e quello degli adulti rappresenta forse il più comune indicatore di svantaggio relativo.

La Figura 1 riporta sull’asse orizzontale il tasso di disoccupazione degli adulti e sull’asse verticale quello dei giovani nel 2009. Le rette inclinate positivamente indicano i casi di pari svantaggio, di svantaggio doppio, e quadruplo dei giovani rispetto agli adulti.

 

Figura 1. Svantaggio assoluto e relativo dei giovani in alcuni paesi OCSE (2009)

 

L’osservazione della figura permette di verificare facilmente che lo svantaggio assoluto dei giovani è minore proprio nei paesi dove anche gli adulti hanno un basso tasso di disoccupazione, vale a dire i paesi europei continentali, soprattutto la Germania, e quelli scandinavi (con l’eccezione della Svezia). I paesi anglosassoni, che, negli anni precedenti alla crisi del 2008, si collocavano nel rettangolo in basso a sinistra della figura, tendono a spostarsi in alto a destra.

 Anche la posizione dei paesi europei mediterranei è peggiorata in misura sensibile dopo la crisi finanziaria. D’altra parte, uno degli scopi del lavoro temporaneo è fornire alle imprese un pool di lavoratori cuscinetto da assumere o licenziare a seconda della fase del ciclo economico.

L’Italia, assieme a Svezia, Norvegia, Lussemburgo e Nuova Zelanda, presenta il rapporto fra disoccupazione dei giovani e degli adulti più alto, vicino a 4. Inoltre, come la Svezia, ma a differenza degli altri paesi citati, presenta uno dei tassi di disoccupazione giovanile più alti.

I paesi che raggiungono una performance migliore in termini di svantaggio relativo sono la Germania e il Giappone. Entrambi offrono ai giovani non tanto la flessibilità nel mercato del lavoro, poiché anzi sono caratterizzati da mercati del lavoro alquanto rigidi, quanto piuttosto maggiori collegamenti fra sistema di istruzione e mondo del lavoro. In Giappone, oltre il 30% dei diplomati della scuola superiore riceve un’offerta di lavoro dalla scuola stessa, che è in costante rapporto di collaborazione con le imprese locali. Si tratta di sistemi di istruzione costosi sia in termini finanziari che dello sforzo che diversi soggetti devono sostenere, ma anche più sicuri e stabili, anche nelle fasi di maggiore crisi economica. In Giappone, anche dopo una crisi economica durata per tutti gli anni Novanta, il tasso di disoccupazione giovanile è restato bassissimo e lo svantaggio relativo ha superato solo di poco la cifra di 2.

Esistono differenze di genere fra sistemi di transizione dalla scuola al lavoro? La Figura 2 mostra lo svantaggio relativo delle donne rispetto agli uomini nell’età giovanile. Sull’asse delle ordinate si misura il tasso di disoccupazione femminile e sull’asse delle ascisse quello maschile nell’età dai 15 ai 24 anni. I puntini sopra la bisettrice, la linea marrone che indica un rapporto di uno a uno del tasso di disoccupazione giovanile femminile e maschile, indicano una situazione di svantaggio per le donne, mentre i puntini sotto la bisettrice indicano situazioni di svantaggio per gli uomini.

La Figura  2 evidenzia come, a differenza del gap salariale di genere, il gap in termini di tassi di disoccupazione non è un fenomeno comune. Tutt’altro. In nessun paese OCSE incluso nel campione, lo svantaggio relativo delle donne è più che doppio rispetto a quello degli uomini, poiché nessun puntino si colloca al di sopra della linea verde. È anche vero, però, che in nessun paese lo svantaggio relativo degli uomini è più che doppio rispetto a quello delle donne, poiché nessun paese presenta un rapporto inferiore ad un mezzo (linea arancione).

In realtà, le differenze di genere sono piuttosto contenute, poiché i paesi tendono a disporsi per lo più intorno alla bisettrice. Solo in pochi casi, si assiste ad un differenziale di genere assai marcato a danno delle donne (Grecia, Italia, Cile, Portogallo, Polonia) ovvero a danno degli uomini (Irlanda, Estonia, Islanda, Canada, Regno Unito e Stati Uniti, Finlandia e così via). La Grecia e l’Italia detengono il primato delle differenze di genere a danno delle donne, a conferma della scarsa assistenza fornita dallo stato alle donne e della tendenza propria dei sistemi di welfare state europei mediterranei a puntare proprio sul lavoro di cura delle donne per affrontare le difficoltà che nascono all’interno della famiglia.

Ad eccezione di questi pochi casi, però, la regola sembra piuttosto quella di una posizione favorevole alle donne. Ciò si deve a due fattori concomitanti: a) la tendenza dei livelli di istruzione delle donne a superare in misura sempre più marcata quelli degli uomini, ciò che spiega la presenza di un vantaggio femminile diffuso; b) e la tendenza delle donne a posticipare sempre più il momento della maternità, proprio per evitare la discriminazione sul mercato del lavoro. Ne segue che poche sono le donne che hanno già avuto figli sotto i 24 anni, ciò che le mette al riparo dalle difficoltà che sperimentano a causa della carenza di adeguati servizi di assistenza.

In conclusione, si può notare che i regimi di welfare aiutano a comprendere bene la performance relativa delle donne, anche se si nota una maggiore variabilità del gap di genere rispetto a quello fra giovani ed adulti, osservato in precedenza. I paesi che si collocano nel rettangolo in basso a sinistra e presentano, pertanto, un divario di genere ridotto e con tassi medi di disoccupazione bassi per entrambi i generi comprendono sia i paesi dell’Europa centrale che quelli anglosassoni e Scandinavi, dove più sviluppati sono i servizi di assistenza alla maternità e all’infanzia. I paesi dell’Est europeo, che tradizionalmente pongono una forte enfasi sul valore dell’uguaglianza di genere, sembrano non aver perduto del tutto questa caratteristica. Infatti, ad eccezione della cattolicissima Polonia, essi si distribuiscono lungo tutto lo spettro dei tassi di disoccupazione, ma sempre al di sotto della retta bisettrice.

Le implicazioni di policy dell’analisi ora sviluppata sono evidenti, soprattutto con riferimento con i paesi “maschilisti” dell’Europa Mediterranea. I servizi di assistenza alla maternità e all’infanzia sono essenziali per soddisfare l’aspirazione crescente delle donne all’integrazione nel mercato del lavoro e ad una carriera. Le donne giovani dimostrano un impegno sempre più forte nell’istruzione e nel lavoro, anche nei paesi Europei Mediterranei. Tuttavia, almeno per ora, il vantaggio accumulato dalle donne sugli uomini fino al momento della maternità svanisce miseramente all’atto della maternità. Se lo sforzo delle donne non sarà adeguatamente premiato nel futuro, potrebbero verificarsi effetti molto deleteri nel lungo termine, vale a dire una ulteriore caduta della fertilità femminile, che proprio nei paesi Mediterranei è divenuta fra le più basse nell’Unione Europea, e anche dell’impegno delle donne nell’istruzione e nel mondo del lavoro. Ne risentirebbe la produttività media del lavoro e, quindi, anche la domanda di lavoro da parte delle imprese e la crescita economica. Dovrebbe essere allora evidente che la meritocrazia è una bandiera anche per la difesa dei diritti di genere, oltre che della discriminazione nei confronti dei giovani che appartengono alle classi sociali più deboli.

Infine, in specie nei paesi Europei Mediterranei, non si può non parlare dei fattori culturali. Non è un caso che la debolezza delle donne continua a persistere anche fra le più giovani. Ciò accade a causa della tendenza delle donne ad introiettare una mentalità “maschilista” che le porta ancora a credere, già nella fase pre-mercato, di doversi fare da parte poiché presto dovranno abbandonare le loro aspirazioni al lavoro. Ogni attività di informazione e di riflessione sulla consapevolezza delle esigenze di conciliazione fra attività produttiva e riproduttiva è di vitale importanza, forse più dell’aumento dell’offerta di servizi pubblici alla maternità e all’infanzia, in paesi nei quali la stragrande maggioranza degli uomini e, purtroppo anche delle donne, ritiene che la famiglia di appartenenza del bambino debba fornire tali serivizi. In questo senso, la via francese dell’offerta di incentivi monetari potrebbe favorire un nuovo aumento della fertilità, senza però ingenerare il cambiamento, pure desiderabile, nelle abitudini e nei modi di pensare delle donne.

 

Figure 2. Divario di genere nei tassi di disoccupazione dei giovani (2009)

 

 [1] Per forza di cose, queste note possono solo accennare al tema oggetto di indagine. Per una discussione più dettagliata, si veda il libro: Pastore, F. (2011), Fuori dal tunnel. Le difficili transizioni dalla scuola al lavoro dei giovani in Italia e nel mondo, Giappichelli, Torino. Il sito web del libro è: http://www.giappichelli.it/home/978-88-348-1835-0,3481835.asp1.