Dati

L’estate di inGenere è ricca di pensieri su orizzonti femministi indirizzati alle ragazze che stanno vivendo il presente e alle donne che vivranno nel futuro. Li abbiamo chiamati "messaggi in bottiglia". In questo, Roberta Carlini parla del coraggio di farsi valere a partire dai soldi

6 min lettura
Farsi valere
Credits Unsplash/Zeny Rosalina

Questo messaggio in bottiglia nasce da un numero diffuso intorno allo scorso 8 marzo, uno tra i tanti con i quali i media festeggiano la giornata delle donne ricordandoci graziosamente come siamo messe: il 58% delle lavoratrici italiane non ha mai chiesto nella sua carriera un aumento di stipendio, emerge da una ricerca condotta da Indeed. 

Confesso che lì per lì non mi ha colpito tanto, e il fatto che dai suddetti media non emergessero dettagli sulla fonte e sul metodo (chi è Indeed? Come fanno a saperlo? È tanto o è poco?), oltre alla valanga di altre cattive notizie dal fronte gender gap, ha relegato quel numero in un angoletto del mio cervello. 

Da lì però deve avere un po’ lavorato, perché dopo un po’ mi è venuto in mente che lavoro da trentacinque anni e che in vita mia ho chiesto un aumento di stipendio una sola volta – il che mi mette insieme al 38% delle rispondenti italiane, che hanno detto di aver chiesto “almeno una volta” un aumento di stipendio (il complemento a 100 immagino sia “non so – non ricordo”). 

Sarà coincidenza, è successo dopo che ho divorziato. Sarà fortuna, ho ottenuto l’aumento; il che stavolta mi mette nell’estrema minoranza, poiché sempre secondo la suddetta ricerca solo poco più di un quinto di quelle che hanno chiesto un aumento di stipendio hanno poi avuto quel che volevano.

Dunque partendo da me, che ho iniziato come giornalista e adesso faccio la ricercatrice: una donna con una professione che si può definire di livello alto – benché declinante assai, parlo del giornalismo -, che per giunta si occupa di economia dunque maneggia il discorso denaro, ha aspettato tre decenni per osare chiedere quello che le spettava, o che pensava che le spettasse. 

È vero, va considerata l’attenuante di aver iniziato la carriera nell’ultimo bastione dell’egualitarismo salariale in Occidente (per cui di aumenti individuali non era politicamente sano parlare); ma dopo, fuori dal nobile bastioncino, non c’è attenuante che tenga. 

Quel numero ha toccato un nervo scoperto: non il gender gap che è fuori di noi – le differenze a sfavore delle donne nel mercato del lavoro, nelle retribuzioni, nelle pensioni, nell’indipendenza finanziaria, di cui questo sito parla da sempre e che sono state di recente riassunte nel rapporto Eige  – ma il gender gap che è dentro di noi, il portato di secoli di dipendenza economica che (ipotizzo) ci porta a temere, persino a vergognarci, di chiedere più soldi.

Ma sto ipotizzando troppo? Torniamo ai numeri molesti. Vengono da Indeed, che non è un centro di ricerca, ma una piattaforma digitale che intermedia lavoro e che ha pubblicato un report, a inizio di marzo 2024, intitolato Beyond Empowerment: Promoting Woman for Better Work

In sostanza si tratta di una survey, nella quale sono state intervistate 14.500 donne in 11 Paesi, occupate a tempo pieno o parziale. In Italia, il campione è di 1.343 donne. Il questionario è diviso in tre parti: salario e compensi; progressione di carriera; benessere e senso di appartenenza sul posto di lavoro. 

Sul salario, viene fuori che il 63% delle rispondenti italiane ritengono insufficiente la propria paga, ma solo il 38% ha chiesto almeno una volta un aumento. Siamo tra le più timide, dopo il Giappone (13%) e Singapore (38%). 

Una successiva domanda chiede conto del perché, e viene fuori che i principali motivi per non chiedere un aumento sono, per le italiane, il timore di eventuali conseguenze (31%), la mancanza di opportunità (29%) e di fiducia (26%).  (Sull’ultimo punto, non abbiamo la versione italiana del questionario, ma l’inglese confidence fa pensare che si intende sicurezza di sé oltre che fiducia nella possibilità di ottenerlo). 

La storia non ha un lieto fine, poiché viene fuori che solo il 22% dello sparuto gruppetto delle coraggiose che hanno chiesto un aumento di stipendio ha ottenuto esattamente quel che voleva; il 44% ha avuto qualcosa, ma meno di quel che chiedeva; mentre il 33% non ha avuto nulla.

L’indagine di Indeed ha un campione molto piccolo e va presa con tutti i suoi limiti. Tuttavia, i risultati sono del tutto compatibili con quelli che conosciamo da dati più certi e misurabili del mercato del lavoro, nel quale – ricordiamolo – è presente solo una donna su due (il 53,4% delle donne in età lavorativa). 

Da un lato, c’è una maggiore presenza delle donne nell’impiego pubblico, dunque in posti dove carriere e salari hanno un alto grado di automatismo (non è che un’insegnate va dal/dalla preside a chiedere un aumento); dall’altro, nel mercato del lavoro privato, c’è una maggiore presenza femminile in segmenti poveri e ruoli precari, dunque ad alta ricattabilità. 

La timidezza delle lavoratrici italiane nel chiedere aumenti salariali può anche essere indirettamente correlata con il gender gap nell’alfabetizzazione finanziaria, di cui si è parlato in quest’articolo su inGenere; e nel possesso di attività finanzarie, che sono detenute dal 15% delle donne, contro il 35% degli uomini (come raccontano Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio nel libro La ricchezza degli italiani, Il Mulino 2023).

I numeri non soccorrono invece quando ci si avvicina al gender gap che è dentro di noi, alle ragioni accumulate e incrostate del fenomeno per cui meno ci pagano, meno chiediamo soldi. Eppure quasi cento anni sono passati da quando Virginia Woolf dette un titolo e un nome alla cosa.  

“Mia zia, questo lo devo proprio raccontare, morì per una caduta da cavallo un giorno in cui, a Bombay, era uscita per fare una cavalcata all’aperto. La notizia dell’eredità mi raggiunse una sera più o meno alla stessa ora in cui veniva approvata la legge che concedeva il voto alle donne. La lettera di un avvocato cadde nella cassetta della posta e dopo averla aperta scoprii che la zia mi aveva lasciato cinquecento sterline l’anno a vita. Delle due cose – il diritto al voto e il denaro – il denaro, devo ammetterlo, mi sembrò di gran lunga la più importante” scriveva in Una stanza tutta per sé.

Se la rentier di Bloomsbury, dall’alto delle sue 500 sterline l’anno, rimane ancora il punto di partenza essenziale per chi va alla ricerca di indizi non numerici sui rapporti tra donne e denaro, un salto negli anni 20 del nostro secolo ci porta al cinema. 

Alla rivisitazione di Piccole donne fatta da Greta Gerwig, che invece di concludersi con il terzo matrimonio della famiglia (che comunque ci sarà, perché “se la protagonista è una donna è certo che alla fine deve o sposarsi o morire”) si chiude con la dura contrattazione tra Jo March e il suo editore circa le percentuali sulle vendite e il copyright. 

Alla Barbie della stessa Greta Gerwig, la cui carta di credito non funziona più quando Ken scopre quant’è bello il mondo reale del patriarcato. 

Al borsellino in cui Delia nasconde giorno per giorno al marito violento gli spiccioli guadagnati, nel film di Paola Cortellesi C’è ancora domani

Non sono certo le sole opere in cui viene affrontato il complicato, spesso tragico, rapporto tra donne e denaro, lavoro femminile e sua paga, diritti economici e diritti politici. Ma le tre pellicole citate – soprattutto le ultime due, del 2023 - hanno in comune uno straordinario successo di pubblico e incassi. E se il tema diventa pop, potrebbe avere vita facile questo messaggio in bottiglia: facciamoci pagare il giusto. 

Leggi tutti i messaggi in bottiglia