Politiche

Dati, modelli, politiche a confronto nel corso della terza conferenza mondiale dei centri antiviolenza, che si è tenuta a inizio novembre a L'Aia

Fermare la violenza sulle donne.
La conferenza mondiale a L’Aia

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foto Flickr/Global Network of Women's Shelters

La terza conferenza mondiale dei centri antiviolenza che si è svolta a L’Aia dal 3 al 6 novembre 2015 era intitolata Connect and act to end violence against women. L’evento ha registrato la partecipazione di oltre 1000 donne, provenienti dai 5 continenti e rappresentanti 115 paesi, e ha dato voce a esperienze, saperi e pratiche diverse nel contrasto alla violenza contro le donne che si realizza nei centri antiviolenza.

I centri antiviolenza nascono dall'attivismo delle associazioni di donne, che lottano per leggi non discriminatorie, che offrono rifugio alle donne che scappano da mariti violenti, che producono cambiamento culturale per una società inclusiva ed ugualitaria. Si tratta di quegli stessi centri per cui i soldi in Italia non arrivano mai, e che spesso chiudono proprio per mancanza di fondi o si sostengono con il volontariato delle operartici.

Ho partecipato come rappresentante di Differenza Donna, un'associazione che da 25 anni apre, gestisce, sostiene i centri per contrastare la violenza e costruire nuovi diritti e libertà. Incontrare donne di tutto il mondo che fanno questo difficile lavoro, mi ha dato la sensazione di essere avvolta da un'intelligenza collettiva, pratica, radicata nell'esperienza che le donne hanno maturato confrontandosi e contrastando quotidianamente  la violenza.

Per facilitare lo scambio e il confronto, la conferenza era organizzata in 130 workshop che affrontavano tematiche relative a cinque aree tematiche: l'indipendenza economica delle donne che hanno subito violenza, il finanziamento e la sostenibilità dei centri antiviolenza, la violenza contro le donne in un'ottica transnazionale, la violenza contro le donne a partire dalle esperienze di ogni continente e gli approcci innovativi per sradicare la violenza contro le donne e per sostenere le donne che hanno subito violenza. Ognuna delle tematiche è stata affrontata offrendo dati, analisi, politiche e prospettive di cambiamento.

Tra i relatori e le relatrici delle sessioni plenarie: Linor Abargil, miss mondo 1997, protagonista del documentario Brave Miss World, in cui racconta la storia dello stupro che subì alle porte di Milano pochi giorni prima di essere incoronata la “più bella del mondo”. E poi Monique Wilson, direttrice di One Billion Rising, il movimento fondato da Eve Ensler che fa  ballare milioni di donne ogni anno contro la violenza. E ancora, la ministra dell'educazione dei Paesi Bassi, Jet Bussemaker, Michaela Cash, ministra per le donne e ministra del lavoro in Australia, Bathabile Dlamini, ministra dello sviluppo sociale in Sud Africa, Yuan Feng, attiva per i diritti delle donne in Cina, Yanar Mohammed, dell'Organisation of Women's Freedom in Iraq, Rashida Manjoo Former, special rapporteur delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, e tante altre. Citarle, vuol dire anche sottolineare l'impegno che alcuni governi e istituzioni hanno voluto sostenere per combattere la diseguaglianza di genere e la violenza contro le donne.

L'Olanda e i Paesi Bassi hanno presentato modelli efficienti di contrasto del fenomeno della violenza domestica attraverso l'applicazione di ordini di allontanamento del marito violento dalla casa coniugale, efficaci entro 24 ore dall'episodio di violenza. Un modello di collaborazione tra forze dell'ordine, servizi sociali e centri antiviolenza sicuramente molto attraente, che permette alle donne di rimanere in casa con i figli e di far allontanare l'autore della violenza. Tempistiche invidiabili,se si considera che a volte in Italia decisioni simili richiedono mesi di indagine da parte della procura, scartoffie e tanta burocrazia. Un elemento non invidiabile di questo modello è invece l'ottica con cui opera, mettendo al centro dell'intervento la famiglia come soggetto collettivo di cui anche l'autore della violenza fa parte, e mirando alla sua ricomposizione, dopo un percorso di recupero della persona violenta. Come ha lasciato emergere il femminismo, la famiglia, anche se non violenta, può diventare gabbia per una donna e per il suo desiderio di realizzarsi, dunque non può essere considerata un nucleo di per sé sano.

Quello nord europeo si è mostrato come un modello di forte contenimento del fenomeno della violenza, in cui tutto è controllato, misurato, verificato perché la violenza non accada. Eppure, ormai sappiamo violenza domestica è conseguenza di una discriminazione sociale e culturale che ogni donna subisce: e per sradicarla dobbiamo lavorare anche su un piano culturale e promuovere una società egualitaria. Il rischio è che i centri antiviolenza si concentrino solo sul contrasto alla violenza  con un approccio specialistico e non sul piano  culturale e politico di contrasto alle discriminazioni di genere.

Ho ascoltato con interesse i modelli di centri per donne vittime di violenza di alcune città statunitensi. Modelli di cui ho ammirato l'attenzione alla persona, alle sue esigenze, all'estrema cura del potenziamento delle libertà delle singole affinchè ogni donna possa promuovere o recuperare la propria autonomia e non cadere vittime di relazioni violente. Tuttavia, ho trovato questi modelli  poco centrati sulla critica sociale alla violenza,  sulla cultura che fa riferimento al sentire come comunità, a parole come “sorellanza” o “patriarcato”, ereditate dal femminismo, parole capaci di nominare un’appartenenza di genere, di guidare nell'elaborazione di un agire a supporto delle altre donne.

Ho apprezzato poi che la conferenza abbia voluto dedicare particolare attenzione alle minoranze costituite dalle donne con identità indigene/aborigene, alle migranti e rifugiate, alle donne trafficate, alle donne con disabilità, a quelle che vivono in situazioni di povertà e a quelle che vivono in situazioni di guerra e conflitti. La conferenza ha invocato a gran voce la necessità di rendere protagoniste queste donne per affrontare le criticità del millennio come la crisi economica, i conflitti etnico/religiosi, il divario economico tra nord e sud del mondo.

Il Data Count of the Global Network of Women’s Shelters ha presentato un dato che dovrebbe far riflettere tutti: nel 2015 in un giorno 53.230 donne e 34.794 bambini hanno chiesto aiuto ai centri antiviolenza, ma  7.337 donne e 4.410 bambini non sono stati aiutati per la mancanza di risorse. La conferenza ha richiamato gli Stati alla responsabilità verso la violenza contro le donne: servono più centri antiviolenza e più fondi. Dare sostegno alle vittime di violenza è una questione di democrazia per creare società inclusive e non discriminanti.

L'eliminazione della violenza contro le donne e il raggiungimento dell'uguaglianza di genere sono tra gli obiettivi dell'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile adottato dall'assemblea generale delle Nazioni Unite. Una data non così lontana, e molto lavoro resta ancora da fare. Le donne che hanno partecipato alla conferenza lo fanno già, ma hanno bisogno di essere sostenute.