Linguaggi

I media italiani continuano a proporre una rappresentazione stereotipata delle atlete protagoniste delle Olimpiadi in corso a Parigi. Come uscire dagli stereotipi e dal pink washing nello sport, a partire dalle parole. L'editoriale

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Nominare le atlete
Credits Unsplash/Jacob Rice

Eravamo già pronte a festeggiare la prima olimpiade in 128 anni a potersi fregiare della pari rappresentanza tra atlete e atleti – un traguardo ottenuto faticosamente dalle donne e promosso strumentalmente dal Comitato Olimpico, con tanto di hashtag autocelebrativo #GenderEqualityOlimpics, nonostante alcune perplessità

E invece, eccoci di nuovo in piedi a dover sottolineare il linguaggio incongruo con cui, almeno a queste latitudini, continuano a esser trattate le atlete, anche quando portano medaglie.

Come dice la scrittrice femminista Sara Ahmed, siamo destinate a una vita da "killjoy", guastafeste, non c'è che dire. Ma vediamo le cose dalla giusta prospettiva.

I segnali per festeggiare, a volersi fermare alle apparenze, c'erano tutti.

Per apprezzare adeguatamente l'importanza del fatto che questi sono i primi giochi olimpici in cui il numero di partecipanti è equamente distribuito tra uomini e donne, è importante ricordare che per lungo tempo le donne ne sono state escluse. 

Lo storico Pierre De Coubertin, considerato il promotore delle Olimpiadi dell'era moderna, non le considerava idonee. Ci è voluto tutto l'ingegno e la tenacia di Alice Milliat, nuotatrice e canoista francese, che nel 1922 è arrivata a dar vita ai primi giochi olimpici tutti femminili, per riuscire a ottenere, dopo lo scherno e il disagio del Comitato olimpico ufficiale, che le donne avessero un ruolo sempre più congruo alle Olimpiadi.

Nel 1900, anno delle prime Olimpiadi dell'era moderna, che si tennero proprio a Parigi, la partecipazione femminile era pari al 2% (22 donne in tutto). Nel 1960, alle Olimpiadi di Roma, erano il 10%. Ai giochi di Los Angeles del 1984, meno del 25%, e a Pechino 2008 poco più del 40%.

124 anni per arrivare a essere la metà delle persone partecipanti, a conti fatti meno dei 131 che secondo il World Economic Forum saranno necessari per avere la parità di genere a livello mondiale. Un buon traguardo dunque, di cui essere soddisfatte.

Altri segnali che facevano ben sperare sono il fatto che dal 2020 sono state modificate le regole per la cerimonia di apertura, che consentono a un atleta uomo e a un'atleta donna di portare insieme la propria bandiera, nell'ottica di una maggiore visibilità delle atlete. 

A ciò si aggiunga il fatto che nel villaggio olimpico parigino sono state intitolate strade e impianti a donne che si sono distinte in vari ambiti, selezionate con una consultazione su Internet: dall'avvocata Gisele Halimi alla performer e attivista Josephine Baker, includendo alcune donne di fama locale come Eve Chastagnol, la centenaria del municipio che ospita il villaggio.

Segnali che hanno consentito ai giornali di pubblicare articoli con titoli entusiasti come Il villaggio olimpico si tinge di rosa (sic), mentre il numero di impianti sportivi francesi intitolati a donne finalmente superava il vergognoso 1% pre-olimpiadi.

In apparenza quindi, e prima del fischio di inizio delle varie gare, le condizioni sembravano tali da farci dimenticare quello che scrivevamo nel 2016, quando mettevamo in relazione i commenti sessisti e omofobi alle performance olimpiche dei giochi in corso con i risultati scoraggianti della più recente indagine di Eurobarometro sugli stereotipi di genere che affliggevano – speravamo ignare di poter usare l'imperfetto – la popolazione italiana.

Speravamo anche che questi giochi ci consentissero di dimenticare i dati che invece ci ricorda l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere (Eige) nella sua breve pubblicazione Parità di genere e sport, in cui si sottolinea come gli stereotipi di genere prevalenti influenzino la partecipazione delle donne alla pratica sportiva e ai processi decisionali nelle organizzazioni sportive. 

L'area tecnica è un altro ambito dello sport in cui le donne sono largamente sottorappresentate, con le allenatrici in Europa che non superano il 20-30%, evidenzia la pubblicazione, che insiste sopratutto sull'abissale differenza nella copertura mediatica tra sport maschili e femminili, e sulla scarsa presenza delle donne nel giornalismo sportivo. Solo per fare un esempio, alle Olimpiadi di Londra del 2012 il 15% dei giornalisti e dei fotografi presenti alla manifestazione era una donna.

Insomma, ci volevamo credere a #GenderEqualityOlimpics. Eppure, appena si sono aperti i microfoni e sono usciti i primi titoli sui giornali, sono arrivati commenti sessisti – della ginnasta Simone Biles, nonostante i cinque ori, un argento e due bronzi, ci invitano a guardare soprattutto i capelli spettinati, il bikini che batte il velo –, considerazioni fuori luogo sull'emotività delle atlete (che non viene mai trattata come quella degli atleti) e soprattutto la difficoltà invalicabile a riconoscere autorevolezza alle donne, a chiamarle per nome.

Anche quando vincono la medaglia d'oro, testimonianza inconfutabile che sono le migliori del mondo.

In questo senso fa quasi scuola il recente titolo di un noto quotidiano, che si riferiva alle quattro vincitrici dell'oro nella spada a squadre definendole "l'amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa, la mamma" (ora prontamente cambiato, dopo le polemiche, in "la musicista, la francese, la psicologa, la veterana", che attenua ma non risolve). 

Una summa di quello che Michela Murgia nel suo Stai zitta identificava come la difficoltà di riconoscere e nominare le donne e attribuire a loro, alle loro persone, i talenti e i successi di cui sono protagoniste.

Le donne sono costantemente percepite come esseri "relazionali" o funzionali, cioè che esistono solo in quanto in relazione con qualcuno (di una donna si dice che è moglie, madre, sorella, amica di) o perché hanno una funzione (sono maestre, musiciste, psicologhe; vincere una medaglia evidentemente non basta).

Ed è significativo che questo titolo sia apparso sul quotidiano che tra i primi in Italia ha investito nell'istituzione del Diversity Editor, una figura importante che dovrebbe garantire il rispetto delle persone e l'attenzione all'inclusione, ma che certamente non è sufficiente nella lotta allo stereotipo sessista.

È sempre Sara Ahmed nel suo Vivere una vita femminista a ricordarci che, senza un intervento che metta in discussione il sistema e che interroghi le ragioni profonde delle discriminazioni, istituire figure interne alle organizzazioni con mandati ambiziosi e poche risorse produce solo l'effetto di deresponsabilizzare rispetto alla necessità di promuovere un effettivo cambiamento.

Il primo passo quindi è rendersi conto che il problema è profondo ed è reale. L'Italia rimane un paese sessista, che fa fatica a superare un binarismo di genere in virtù del quale è difficile riconoscere le donne come protagoniste della vita pubblica, anche quando sono atlete di fama mondiale.

I media, inconsciamente, pensano che sia necessario stemperare questo successo, avvicinare le atlete ai lettori e alle lettrici, facendole diventare, come diceva Murgia, "donne a caso". Nominarle sembra troppo, la società non è pronta.

Avremmo avuto un titolo così se fossero stati uomini? Abbiamo visto titoli così in altri paesi? La risposta, in entrambi i casi, è no, e non è una cosa da poco.

Sembrano cose piccole e invece non lo sono. Perché le parole sono legate a filo doppio con il pensiero, da un lato lo riflettono ma dall'altro lo condizionano.

Ed è anche ragionando sulla scelta delle parole che si costruisce la narrazione e la visione di ciò che ci circonda.