Gender pay gap: con la direttiva sulla trasparenza salariale che prescrive la fine del segreto retributivo e l'obbligo per le aziende di dichiarare le retribuzioni, la normativa europea fa un importante passo avanti. Ma non tutto è da festeggiare
La direttiva sulla trasparenza salariale approvata dal Parlamento europeo introduce per la prima volta norme vincolanti sul gender pay gap: fine del segreto retributivo, obbligo per le aziende di dichiarare le retribuzioni, sanzioni per chi non rispetta le regole. “Una pietra miliare” secondo l’Istituto europeo per la parità di genere (Eige).
A giudicare dal testo però c’è meno da celebrare di quel che sembra: le disposizioni sulla trasparenza si applicheranno solamente all’1 per cento delle aziende attive sul territorio europeo. Per chi ha seguito da vicino le negoziazioni tra le istituzioni europee – in corso da più di un anno – questa percentuale così bassa è da considerare una vittoria: il Consiglio dell’Ue, a guida svedese fino a giugno, voleva limitare il campo di applicazione alle aziende con più di 250 dipendenti, lo 0,2 per cento nell’Ue.
Attraverso gli sforzi del Parlamento si è riuscita ad allargare la platea, ma non senza intoppi: la direttiva entrerà in funzione tra quattro anni per le imprese con più di 250 dipendenti e ci metterà il doppio, otto anni, per raggiungere quelle con più di 100 lavoratrici/lavoratori (si pensi che in Italia la legge 162 del 2022 prevede l’obbligo di “rapporto sulla situazione del personale” per le imprese con più di cinquanta dipendenti).
Se si fosse atteso qualche mese per portare il testo al voto dell’assemblea di Bruxelles forse si sarebbero potuti raggiungere risultati migliori, visto che a luglio la presidenza del Consiglio passerà alla Spagna che ha nel suo ordinamento una legge decisamente più progressista.
Il principio della parità retributiva è uno dei cardini dell’Ue, è stato sancito per la prima volta a Roma, nel 1957, in quelli che hanno preso il nome di “trattati fondamentali” e costituiscono la base del funzionamento – e dell’orizzonte – dell’Unione. Non basta però un’enunciazione di valori a rendere effettivo un diritto, tant’è che il gender pay gap nell’Ue è in media del 13 per cento e negli ultimi dieci anni è diminuito molto poco.
Sono necessari quindi degli strumenti, e la direttiva appena votata nasce proprio con questo scopo. La direttiva vale solo per le lavoratrici dipendenti e non per le libere professioniste. Non è stata una proposta particolarmente ambiziosa o radicale, eppure questo non ha impedito che ne venisse comunque ristretto il campo di applicazione attraverso un cavillo che inserisce un’ulteriore limitazione: l’obbligo di trasparenza nelle retribuzioni scatta nel momento in cui il divario salariale supera il 5 per cento.
È un po’ come dire che si può continuate a discriminare, purché non lo si faccia in maniera spudorata. E il limite di ciò che è spudorato lo si lascia definire a una percentuale arbitraria. Perché proprio il 5 per cento?
Il testo non è tutto da stracciare, come invece avrebbe voluto la destra che lo ha bocciato con la scusa dell’eccessivo peso amministrativo per le aziende (Annika Bruna, Front National), o peggio ancora agitando lo spettro di un’Europa che vuole introdurre una fantomatica ideologia gender (Margarita de la Pisa Carrion, Vox).
Ci sono concreti passi in avanti e segnali importanti. Per esempio: sono stati inclusi – per la prima volta nella legislazione Ue – i diritti delle persone non binarie; gli annunci di lavoro devono contenere l’offerta economica; l’onere della prova spetta all’azienda che deve dimostrare di non discriminare, non alla lavoratrice; e le sanzioni non possono limitarsi al ripristino del salario equo perduto.
Tutto questo è sufficiente per festeggiare? Non è un dilemma che si risolve con lo stanco refrain del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Si può riconoscere che i rapporti di forza, anche in Ue, non sono ancora maturi per un risultato differente.