Politiche

Con un'età media alta, saperi obsoleti, spesso senza esperienza, non basteranno i 150.000 nuovi assunti a rilanciare la scuola. Il piano del governo non prevede le quattro cose di cui c'è più bisogno: tempo pieno, corsi di italiano per stranieri, materie opzionali, educazione per adulti. Per fare una scuola che sia motore di inclusione sociale e pari opportunità

Quattro cose per fare
una vera "buona scuola"

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foto di Giuseppe Savo

Al primo punto delle proposte del governo in materia di istruzione c’è un piano straordinario di 150.000 assunzioni di aspiranti insegnanti iscritti alle graduatorie cosiddette ad esaurimento, come si legge nel documento “La buona scuola”. Un’immissione di ruolo in “aggiunta” all’organico ordinario, in un colpo solo, a settembre 2015. Di questi 150mila, un buon terzo sembra non aver mai messo piede di recente in una scuola pubblica, mentre migliaia di giovani insegnanti precari dovrebbero  essere esclusi  dalla mega stabilizzazione perché, per qualche dispositivo avverso, di quelle graduatorie non fanno parte.

Non tutti i 150.000 hanno superato selezioni impegnative, non tutti sono stati disponibili in passato a una mobilità territoriale che li avrebbe forse tirati fuori dai guai, non tutti sono giovani (età media 42 anni), in gran parte sono donne residenti in aree meridionali. Che forse lavorano altrove, forse sono state frustrate e demotivate da un’attesa troppo lunga, forse ora hanno troppi carichi familiari per cogliere la nuova opportunità. Quanto ai titoli, prevalgono quelli utili per il primo ciclo, mentre tra le materie scarseggiano i titoli in campo scientifico  e tecnologico. A dir poco curiosa invece la sopravvivenza di classi di concorso come la stenografia, scomparse per naturale obsolescenza dal comunque antiquato elenco dei saperi scolastici.

È una buona idea eliminare le “graduatorie ad esaurimento”, questa enorme sacca di “diritti” cosiddetti “acquisiti” che inceppa fluidità e tempestività nell’utilizzo e nel ricambio fisiologico del personale, ma ci sono ottime ragioni per discuterne la sostenibilità politica e le destinazioni. Nessun problema per i 50mila posti liberi che solo una straordinaria avarizia politico-amministrativa ha affidato finora a supplenze quasi-annuali (tanto più che,in caso contrario, scatterebbero le salate sanzioni della Corte Europea per l’utilizzo di personale precario oltre i 36 mesi). Ma gli altri cosa andranno a fare? E come si giustifica un investimento così importante (3 miliardi circa ) mentre solo a fine 2018 dovrebbe scattare il primo modesto bonus (60 euro mensili per il 66% dei docenti, zero per il restante 34%) di una nuova carriera incentrata  per la prima volta su “meriti e impegno” invece che sull’anzianità? Gli insegnanti italiani, tra i peggio pagati d’Europa, sono da sei anni senza rinnovo contrattuale e la nuova carriera - che già non entusiasma perché nella scuola  l’anzianità ha parecchio a che fare con la professionalità (e anche  perché la sola ipotesi di una verifica di quello che si sa fare fa venire l’orticaria) - dovrebbero pagarsela da sé, con i risparmi accumulati dall’eliminazione, di qui al 2018, degli scatti automatici di anzianità. Quanto ad altre priorità citate dalla “Buona Scuola”, alternanza studio-lavoro compresa, basta una scorsa alla legge di stabilità per capire che per tutte o quasi non ci sono  nuovi investimenti ma piuttosto nuovi tagli. Anche di personale tecnico e amministrativo, cioè di quello che nella scuola manca davvero.

Certo in un periodo così difficile per l’occupazione (e dopo le ferite dei tagli di Gelmini-Tremonti: - 8,5 miliardi, cancellati qualcosa come 85.000 posti di lavoro) non sono tante le voci contrarie all’assunzione massiccia di nuovi insegnanti, ma sarebbe l’ennesima replica dell’approccio quantitativo ai bisogni della scuola, l’ulteriore sanatoria al buio di ogni criterio qualitativo con cui scegliere gli insegnanti. Chi avanza dubbi argomenta che andrebbero considerati gli effetti del calo demografico, che il rapporto numerico tra insegnanti e studenti in Italia si attesta nella media Ocse, e che le classi molto affollate non sono tantissime e si devono, più che a carenza di insegnanti, alle regole bizantine imposte dal ministero dell’istruzione. Bisogna inoltre ricordare l’esperienza ancora fresca delle “dotazioni organiche aggiuntive” di qualche anno fa, migliaia di insegnanti in più che dovevano  anche loro essere “funzionali” al miglioramento della scuola, e che però   sono stati per lo più  sottoutilizzati. Succederà ancora, e come evitarlo? Nelle ultime settimane sono state avanzate molte ipotesi ma un tavolo di confronto non c’è, mentre la consultazione online appare inadeguata alla costruzione di soluzioni specifiche.

Copertura delle supplenze brevi a parte – che non sono certo il male peggiore della scuola italiana e per cui ci sarebbero soluzioni meno costose e più funzionali della sanatoria- gli ambiti più importanti cui destinare gli organici aggiuntivi sono essenzialmente quattro. In primo luogo la generalizzazione, in tutta la scuola per l’infanzia e nella scuola primaria, di un tempo lungo/pieno sempre più richiesto anche nel Mezzogiorno per il crescente ingresso delle donne nel mercato del lavoro. E sempre più importante per colmare il prima possibile le difficoltà di apprendimento e i problemi anche affettivi e relazionali di tanti bambini colpiti direttamente dai mille guai di questa fase. Va detto che il tema c’è,nel testo della “Buona Scuola”, ma annegato tra molti altri, senza considerare la diseguaglianza di opportunità per le famiglie e per i bambini insita in un tempo pieno che se nella scuola primaria di  molte città del Nord e del Centro oscilla  tra il 50 e il 90 per cento delle classi, nel Mezzogiorno precipita sotto il 10 per cento.

Il secondo ambito riguarda l’esigenza ormai stringente di una diffusione in tutte le scuole ad alta densità di studenti stranieri di laboratori permanenti di apprendimento dell’italiano come seconda lingua, e di insegnanti appositamente qualificati. È soprattutto per il trascinarsi delle lacune linguistiche che la scuola italiana non riesce a sanare la disparità per gli studenti di madrelingua non italiana, le cui carriere scolastiche sono falcidiate da un’enormità di ritardi scolastici, ripetenze, abbandoni precoci e perfino fenomeni di “segregazione formativa”.

Questo tema nelle 136 pagine della “Buona Scuola” non è neppure sfiorato. Un silenzio inspiegabile – gli studenti stranieri sono ormai 800mila, il 10% del totale – che oltre a segnalare una sottovalutazione profonda dei problemi di integrazione delle seconde generazioni, delinea un governo apparentemente insensibile agli effetti del calo demografico. Eppure un paese con sempre meno giovani non può permettersi di sprecare i talenti e le intelligenze.

Il terzo ambito riguarda l’introduzione, nella scuola secondaria di secondo grado, di aree opzionali che, come nei sistemi educativi di altri paesi, consentano ai giovani di verificare per tempo le proprie attitudini, rafforzare i propri interessi,responsabilizzarsi alle scelte future di studio e di lavoro. Nella “Buona Scuola” un accenno c’è, ma non legato al nuovo personale docente.

Infine il quarto ambito riguarda lo sviluppo- oggi condizionato, appunto, da precisi vincoli di organico – dell’offerta di educazione degli adulti, nella prospettiva del life long learning. Anche qui un tema di emergenza, tra le troppo basse competenze di base degli adulti italiani evidenziate da ogni ricerca comparativa internazionale e il bacino dei giovani adulti senza diplomi e qualifiche incessantemente alimentato da una dispersione scolastica parecchio sopra la media Ocse.  Un buon terzo dei NEET, si sa, è in questa condizione, ragazzi italiani e ragazzi con background straniero. Ma questo delle scuole di seconda opportunità e dell’apprendimento lungo tutto il corso della vita è un tema che la politica italiana ha quasi sempre tenuto lontano dalle decisioni relative al sistema scolastico, e la “Buona Scuola” non fa eccezione.

Silenzi e sottovalutazioni che danno conto, al netto dell’involucro accattivante e di alcune novità effettive della “Buona Scuola”, di una continuità con alcune politiche scolastiche tradizionali ben maggiore di quello che si vorrebbe far credere. Che si rivela anche in altre parti e su altri temi del documento.Ma anche così qualcosa di buono potrebbe venirne, se ci fosse la possibilità di confronti di merito, e di luoghi politici e tecnici adatti allo scopo. Al momento non ci sono, ma potrebbe essere uno dei casi in cui la forma si fa sostanza.