Politiche

Una profonda incomprensione corre tra le due sponde del Mediterraneo su temi come la libertà di parola e la religione. Inevitabilmente, il sentire di un decolonizzato è diverso da quello di un ex colonizzatore

Altri sguardi, altre sensibilità.
La vicenda Charlie, vista dalla Tunisia

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La cattedrale cattolica in avenue Bourguiba, a Tunisi. Foto Flickr/Extra terrestre

Per la prima volta in vita mia, andando come ogni mattina al mio baretto di quartiere, dove si discute di politica e di calcio, ho provato ciò che prova spesso un qualunque musulmano d’Europa: la molesta sensazione che sarei stata chiamata a giustificarmi. Sono appena tornata da Tunisi, meno di una settimana dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo. Il barista su arabi e musulmani pensa quello che pensano gli Italiani nutriti a piene mani di luoghi comuni, disinformazione e ideologia. Ma è un amico e si è limitato a dire: “Scommetto che hai pensato parecchio a me in questi giorni…” – Ha aggiunto, ironico: “Sapevi che ti sto aspettando al varco…”. Io però godo di un passaporto italiano e di un mestiere intellettuale: due cose che ti proteggono anche se esprimi posizioni islamofile. Se fossi una ragazza maghrebina, con un permesso di soggiorno temporaneo, un modesto lavoro manuale e per giunta indossassi il hijab quel giorno forse non ci sarei proprio entrata, nel mio simpatico baretto.

A Tunisi ricevo la notizia dell’attentato in casa di amici tunisini: piccola borghesia impiegatizia, francofona, moderata e antislamista. Seguono le notizie in televisione, ammirano la grandeur della Francia capace di radunare tutti quei capi di stato. La posta in gioco, come la vedono loro, è quella della forza dello stato, sono di quelli che pensano che il primo diritto di un popolo sia quello di mangiare, come disse Chirac nel 2003, e che la libertà di espressione “non si mangia”. La mattina dopo, a mezzogiorno, c’è una piccola manifestazione, convocata attraverso Facebook, davanti alla cattedrale cattolica, sull’avenue Bourguiba, di fronte all’ambasciata di Francia, sempre protetta da rotoli di filo spinato e camionette dell’esercito. “Ma siamo anche di fronte alla statua di Ibn Khaldun”, il grande pensatore arabo medievale, fa notare uno dei manifestanti, una cinquantina in tutto, francesi, binazionali o tunisini francisants. E un altro aggiunge: “Sono musulmano ma sono qui perché noi abbiamo il cuore caldo”. Due giornaliste dall’aria decisa si mettono in posa sui gradini della cattedrale, innalzando dei cartelli. Le circonda un gruppetto di persone, volti noti dell’intellighenzia tunsina, dal grande architetto Jalel Abdelkefi alla femminista storica Neila Jrad. Alzano matite e penne per farsi fotografare. “I giovani non si sono disturbati” deplora qualcuno. Due donne rievocano i due omicidi politici che nel 2013 hanno rischiato (o tentato) di far deragliare il fragile processo di transizione democratica. - “Uccidono i laici ancora una volta” – “Ma Belaid e Brahmi non erano dei laici, erano dei nazionalisti arabi.” – “Bè, Chokri Belaid lo era, laico. Anzi, diciamo pure che era ateo…” – “Ma non lo ha mai detto esplicitamente, era un nazionalista arabo…”

Come in tantissime occasioni, il dialogo sui gradini della cattedrale riflette la profonda incomprensione che corre tra le due sponde del Mediterraneo su certi temi. Sull’altra sponda non si capisce ad esempio che in Tunisia nessuno voglia definirsi laico, e paradossalmente meno che mai oggi, dopo che le ultime elezioni hanno visto la sconfitta del partito islamista Ennahdha a opera di un movimento esplicitamente antislamista. Con l’elezione di Béji Caid Essebsi viene riportata in auge la religione, “quella vera” dicono i suoi sostenitori, “il nostro islam tunisino” tollerante, amante della vita, poco rigido nella pratica. “C’è sempre stato il bar [1] vicino alla moschea” dice Leyla, giovane avvocata sostenitrice di Marzouki, l’avversario di Essebsi. Poi però, quasi ad evitare equivoci, aggiunge: “Ciò che il popolo rimprovera a Ben Ali è di aver represso la pratica religiosa, chiudendo le moschee” [2]. Così oggi, ascoltando certi discorsi, parrebbe che una delle principali poste in gioco della rivoluzione non fosse la libertà di parola ma la libertà di culto. Come per quel taxista che lamentando il deterioramento del potere di acquisto afferma: “L’unica cosa che abbiamo guadagnato è la possibilità di andare a pregare nella moschea”. Ciò suona abbastanza strano a chi, fino a ieri, sentiva il popolo borbottare – sostenuto da media e intellettuali - che “l’unica cosa che abbiamo guadagnato è stata la libertà di espressione”. Ma il mio taxista è convinto: “Prima non potevo andare in moschea, avevo paura. Però poi Allah mi avrebbe detto: ‘Temi più gli uomini di me?’ Adesso non ho più questo dilemma”.

Il presidente neo-eletto è stato fotografato, il 3 gennaio, in occasione del Muled, festa della nascita del profeta, nella grande moschea di Cartagine, circondato dai massimi dignitari della repubblica, islamisti e antislamisti compostamente seduti gli uni accanto agli altri in abiti tradizionali da cerimonia. I media hanno ricordato che anche Bourguiba soleva presiedere i festeggiamenti del Muled a Kairuan: è vero, ma per tre anni ci è stato ricordato soltanto il Bourguiba che toglie il velo alle donne e beve pubblicamente durante il digiuno del ramadan. Ci avevano provato, dopo la rivoluzione, i partiti della sinsitra - operaista, marxista e riformista - ad affermare un’immagine della società laico-modernista alla francese. Il loro fallimento è stato clamoroso nelle elezioni del 2011, quelle del 2014 li hanno praticamente spazzati via e la religione è rientrata a pieno titolo nella vita politica. La vicenda Charlie smuove soltanto i ristretti circoli di una elite intellettuale come quella radunata la sera dopo l’attentato al Teatro El Hambra – delizioso piccolo teatro off dalle parti di Bab Jedid ai margini della medina – in occasione della prima di una pièce franco-tunisina, parte di un ciclo dedicato alla Rivoluzione, protagonisti una coppia di militanti della snistra radicale, dove il pubblico condivide con emozione l’omaggio alle vittime della strage.

Nel paese, invece, i giorni successivi cade un silenzio beneducato. La civile Tunisia ha mandato il suo capo di governo alla manifestazione e tutti i partiti hanno espresso la loro ferma condanna: un unanimismo che nessuno ha contestato. Quando è uscito il nuovo numero di Charlie con Maometto in copertina non vi sono state le manifestazioni violente che hanno avuto luogo in altri paesi. Ma in Tunisia come nel resto del Maghreb ne è stata vietata la distribuzione. Forse allora bisogna ricordare che la nuova Costituzione tunisina, articolo 6, affida allo stato il compito di “diffondere i valori della moderazione e della tolleranza” e di “proteggere il sacro e vietare ogni offesa ad esso”. Nella stessa frase. Figuriamoci poi se Charlie può venire accettato in Marocco, dove il re è il comandante dei credenti, o in Algeria dove l’ultima cosa che si vuole è alimentare l’islamismo radicale. E forse bisognerebbe anche avere il buon senso di capire che la sensibilità di un “decolonizzato” [3] è diversa da quella di un ex colonizzatore.

Quando torno in Italia scopro che anche qui non tutti sono Charlie. Soprattutto le donne. È strano come manchi il loro punto di vista, sebbene siano chiamate in causa ogni qualvolta si parli di islam. Nella strage una donna è stata uccisa: si chiamava Elsa Cayat, era psicanalista, teneva una rubrica sulla rivista, scriveva libri sui rapporti tra uomini e donne. Un’altra è stata risparmiata: si chiama Sigolène Vinson, è avvocata e romanziera, si occupa della cronaca giudiziaria. Ha guardato l’assassino negli occhi. Lui ha detto “Non uccidiamo le donne”. Ha aggiunto: “Pensa a quello che fai, è male” e lei gli ha risposto silenziosamente “No, è ingiusto, il bene è dalla nostra parte, è lui che si sbaglia”. In quel muto dialogo due alterità radicali – di genere, cultura, credenza - si sono confrontate, per un attimo. Tra esseri umani. Da lì si potrebbe ripartire. Da uno sguardo di donna “senza odio e senza paura”.

 



NOTE

[1] A differenza del caffè, nel bar si vendono alcolici.

[2] Sotto Ben Ali le moschee aprivano solo nelle ore della preghiera.

[3] Hélé Béji, Nous, décolonisés, Paris, Arléa, 2008.