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Il ritardo insostenibile dei fondi antiviolenza

Politiche
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Che ne è stato dei fondi statali stanziati dai decreti di ripartizione antiviolenza emanati tra il 2016 e il 2018? 

A distanza di tre anni dall’emanazione del primo decreto, i fondi – in tutto 17,5 milioni di euro per il periodo 2015-2016, 12,7 milioni per il 2017, 20 milioni per il 2018  non sono ancora stati totalmente liquidati dalle Regioni, e continuano ad arrivare con forte ritardo, nonostante per legge avrebbero dovuto essere utilizzati entro l’esercizio di bilancio del 2018.

A confermarlo è Actionaid, che ha preso in esame i dati e gli atti regionali riguardanti la liquidazione dei fondi stanziati in base alla legge 119/2013, la cosiddetta legge sul femminicidio.

Il monitoraggio, aggiornato al 1° ottobre 2019, ha rilevato che la percentuale di risorse liquidate dalle Regioni agli enti gestori di case rifugio e centri antiviolenza è salita al 63% (dal 25,9% registrato nel 2018) per i fondi relativi al 2015-2016, al 42% (dal 17% del 2018) per quelli destinati al 2017, e che è praticamente nulla per i fondi destinati al 2018.

Se nel caso delle Regioni è stato registrato un lieve miglioramento nei tempi impiegati per liquidare le risorse loro assegnate rispetto all’annualità precedente, nessun miglioramento è stato rilevato nei tempi di ripartizione e trasferimento delle risorse da parte del DPO alle Regioni” commenta Actionaid. Il ritardo medio con cui i soldi arrivano alle Regioni è di un anno, le risorse 2017 e 2018, spiega Actionaid “sono state liquidate dal DPO alle Regioni rispettivamente a 12 e 8 mesi di distanza dall'emanazione del decreto di ripartizione”.

Una mancanza grave, che indica “l’insufficiente volontà politica di migliorare il meccanismo di ripartizione anticipando la pubblicazione dei decreti ad inizio anno, riducendo i tempi amministrativi e dotandosi di personale sufficiente per una gestione puntuale delle risorse”.

E che sommata ai ritardi delle Regioni sta comportando conseguenze importanti: riduzione e interruzione delle attività, decurtazione dei posti letto, precariato strutturale del personale. Il rischio è “di far chiudere le strutture di supporto ed accoglienza, togliendo alle donne che subiscono violenza la possibilità di essere assistite e costringendo le operatrici ad una costante precarietà professionale e personale”. 

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