Valutazione d'impatto di genere e infrastrutture sociali sono parole chiave per la ripresa, eppure nel piano nazionale non si vedono progetti e conti precisi. Ecco perché il programma di investimenti che l'Italia presenterà alla Commissione europea proprio ancora non va, le donne non sono un capitoletto
La buona notizia è che la parità di genere è considerata “strategica” nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sull’uso delle ingenti risorse in arrivo dalla Commissione europea nell’ambito del piano Next Generation EU.
La cattiva notizia è che, pomposamente enunciata nelle prime pagine, questa strategia si inabissa nelle successive 120, per ridursi a una delle componenti delle sei missioni con le quali il piano si dovrà attuare: nello specifico, nella missione numero 5, “parità di genere, coesione sociale e territoriale”. Donne, giovani, poveri e mezzogiorno, per capirsi.
La notizia ancora mancante è quella sul numero di donne che saranno presenti nel direttorio – task force, struttura di missione, governo parallelo, comunque lo si voglia chiamare – che deciderà e gestirà i fondi in questione: il fatto che siano tutti maschi i titolari dei dicasteri competenti (Economia e sviluppo economico, più il presidente del consiglio) e che per il livello tecnico si richiedano “manager” non fa ben sperare, vista la tradizione di genere della classe manageriale italiana. Per questo è nata e cresciuta trasversalmente nel paese una mobilitazione (vedi le campagne Halfofit, Il Giusto mezzo, Datecivoce, ecc.) per rivendicare una paritaria presenza delle donne in quello che per la politica e l’economia italiana dei prossimi anni sarà un luogo cruciale.
Contribuiamo a questa mobilitazione, con tre punti programmatici che ci sembrano irrinunciabili:
- usare i tempi e le risorse straordinarie per capovolgere l’ordinario, cioè una economia e una politica che sacrificano il ruolo e i saperi delle donne
- considerare la parità di genere – nei fatti e non solo nelle dichiarazioni – come un obiettivo primario e trasversale, che attraversa tutte le politiche e non si aggiunge a esse come riserva per un gruppo protetto
- contare bene soldi e strumenti, per non lasciarci abbindolare da misure-vetrina che nascondono un magazzino nel quale le merci più buone e pregiate vengono riservate ai soliti vecchi interventi.
Capovolgere l’ordinario
Straordinarie sono le risorse che verranno liberate, se il conflitto politico a livello europeo – che contrappone la maggioranza dei paesi, il parlamento e la commissione ai governi di quegli stati che non vogliono che l’uso dei fondi sia condizionato al rispetto dello stato di diritto – sarà superato nei prossimi giorni. La bozza del piano nazionale di ripresa e resilienza ne riassume i numeri: 193 miliardi nel “Dispositivo europeo di ripresa e resilienza” (RRF), di cui 65,4 in sovvenzioni e 127,6 in prestiti; più 13,5 miliardi del cosiddetto React Ue, che mobilizza e amplia i fondi della ordinaria politica di bilancio europea. In tutto, 206,5 miliardi.
Questi fondi avranno bisogno senza dubbio di una capacità tecnica e rapidità di attuazione nella quale la nostra amministrazione è purtroppo deficitaria. Ma questo non obbliga a creare governi paralleli o strutture al di fuori dal regolare controllo politico e parlamentare, sia nella loro formazione – criteri di scelta, trasparenza, competenze – che nel loro operato.
Anzi, potrebbe essere l’occasione per introdurre nella pubblica amministrazione una ondata di innovazione e forze fresche, selezionate in base alle competenze, come per esempio ha chiesto l’appello di Movimenta, Forum Diseguaglianze Diversità e Forum PA. Riformare profondamente l’ordinario, non aggiungere una tecnostruttura straordinaria. Dal punto di vista degli strumenti, componente essenziale di questa innovazione dovrebbe essere quella di introdurre la valutazione di impatto di genere in ogni politica.
La parità di genere non è un "capitoletto"
La valutazione di impatto di genere è la premessa e lo strumento. Lo è sempre, ma soprattutto quando si progetta un piano per superare una crisi che ha colpito le donne più che gli uomini, sia nei suoi effetti occupazionali, che nella ripartizione dei carichi di lavoro nelle famiglie (si vedano per esempio i dati della ricerca Eurofound), che nell’impatto demografico futuro che già si prevede.
Il documento del governo assicura che “la dimensione di genere è tenuta in debita considerazione in tutte le azioni previste nell’ambito del Pnrr, anche grazie all’introduzione di un'adeguata ‘valutazione di impatto di genere’”. Quando però si arriva al sodo, ossia alle tabelline sui soldi, le politiche per le donne si trovano mescolate alle altre diseguaglianze: “parità di genere, coesione sociale e territoriale”.
Se da un lato è ovvio che la diseguaglianza di genere va letta nella sua articolazione sul territorio, nelle classi sociali, negli equilibri tra generazioni, dall’altro il metterla in lista insieme alle altre disgrazie ne fa un capitolo di spesa tra gli altri. Un capitoletto, per essere precise, e con pochi titoli: 4,2 miliardi, dentro i quali ci sono i nidi per l’infanzia, servizi per la cura degli anziani e dei portatori di handicap, che per tutto il documento si suppone siano di competenza delle donne.
Sono poi inclusi “interventi per favorire l’occupazione femminile e rafforzare a tal fine il rapporto tra Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal), le regioni e le province autonome”, più un “sistema nazionale per la certificazione di parità di genere” nelle imprese. A queste si aggiungono interventi per la diffusione della cultura digitale per cui in Italia anche la componente maschile purtroppo non brilla, con il solito regalo di tablet/pc che è la panacea per molte deficienze nel nostro paese. Ci sono anche misure per la microimprenditoria femminile, non è chiaro in quali settori. Speriamo non, come si dice nel documento programmatico, nel commercio e nel turismo, settori che sono e saranno sempre più in crisi nei prossimi mesi.
Soldi e strumenti
Il Pnrr cita pochi interventi concreti, ma per quelli che cita già i fondi stanziati appaiono sottostimati. Partiamo dagli asili nido, ai quali, secondo quando anticipato dal presidente del consiglio in un’intervista a Repubblica, dovrebbero essere destinati 2,5 miliardi (dei 4,2 messi nel capitolo sulla parità di genere) per accogliere 750.000 bambini.
In un precedente articolo su inGenere, davamo conto della spesa necessaria per arrivare a una copertura del 40% (dall’attuale 25%): se si immagina di introdurre servizi nuovi, e si include la spesa per il capitale umano – ossia l’assunzione di personale per i servizi educativi – la stima del governo pare decisamente inferiore al necessario. Tanto più se si progetta anche un orario più lungo e flessibile, che sarebbe necessario per venire incontro alle esigenze reali delle famiglie.
L’unico progetto più dettagliato già esistente è ancora quello del piano Colao, che pareva far riferimento solo alle infrastrutture fisiche; l’accenno nel Pnrr alla necessità di costruire gli asili nido anche con criteri eco-compatibili, oltre che funzionale a far rientrare la spesa nel capitolo “green deal”, fa pensare che ancora una volta ci si concentri solo sugli edifici. Mentre sarebbe necessario, quando si progettano i nuovi servizi per l’infanzia, progettarli come davvero nuovi, a partire dagli orari – tema comune anche alla scuola dell’infanzia ed elementare, in particolare nel mezzogiorno.
Quanto alle “politiche per l’occupazione femminile”, non c’è una indicazione di contenuto, se non – nell’elenco di quanto già si prevede nella legge di stabilità – lo strumento della decontribuzione per chi assume donne. Una politica che agisce dal lato dell’offerta, che non ha dato visibili frutti in passato e che ancor meno ne può dare in presenza di una crisi da domanda.
Una portata ben maggiore avrebbe un piano che valuta e propone tutti gli investimenti in infrastrutture sociali – dai nidi alla cura degli anziani, dall’istruzione alla salute – come potenti iniezioni di domanda di lavoro femminile e allo stesso tempo sostegno alle donne che lavorano.
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