Infatti, solo se non metterà barriere fra sé e coloro che maltrattano le donne, capirà gli altri e si farà capire. Un primo bilancio sull’esperienza dei centri sul disagio maschile, che a fine maggio tornano a vedersi e a fare il punto. Con Maschile plurale e le ricercatrici di le Nove
Il dibattito pubblico e l’iniziativa di servizi, associazioni e istituzioni nei confronti della violenza maschile contro le donne hanno segnato negli ultimi due anni un elemento significativo di novità: è nata infatti una nuova attenzione al ruolo degli uomini.
Questa attenzione si espressa anche nei piani di intervento istituzionale, ad esempio con i tavoli di lavoro del Dipartimento nazionale per le pari opportunità promossi dalla ministra Cécile Kienge. Ora non sappiamo che fine farà questo lavoro come fu per l’ampia consultazione promossa a suo tempo dalla ministra Josefa Idem. Il primo ambito in cui questa novità è emersa sono le campagne di comunicazione: dopo un lungo periodo in cui le campagne rendevano visibili solo le donne vittime, rappresentando l’ invisibilità degli autori e la fragilità delle donne come soggetti deboli e bisognosi di protezione, cominciano ad emergere nuovi tentativi di comunicazione indirizzati agli uomini. Anche in questo caso non tutto va bene : permane la tendenza riproporre una disparità di soggettività tra donne e uomini e a fare appello a modelli stereotipati di mascolinità: uomini difensori delle donne, padroni della virtù virile dell’autocontrollo, uomini che si distinguono dai violenti anziché interrogarsi sulla cultura diffusa in cui la violenza nasce, uomini che “rispettano” le donne più che riconoscerne l’autonomia, la libertà e l’autorevolezza.
A dimostrazione di quanto sia difficile affrontare la violenza date le sue radici così profonde nella nostra cultura condivisa, anche le campagne di contrasto alla violenza sembrano continuare, spesso, a fare ricorso a modelli stereotipati di attitudini maschili e femminili. Ma, comunque, una sperimentazione comincia e ci sono anche esempi interessanti e innovativi di comunicazione indirizzata agli uomini contro la violenza. Anche Maschile Plurale in collaborazione con l’associazione L’Officina di Milano ha provato ad elaborare una di campagna di comunicazione indirizzata agli uomini che verrà presentata in collaborazione con il Comune di Milano in occasione del prossimo otto marzo.
Un altro terreno di novità è la crescita di iniziative orientate a lavorare con gli uomini autori di violenza. Si tratta di iniziative molto eterogenee per approccio e per ambito di intervento: dal lavoro in carcere con uomini condannati per reati sessuali, agli sportelli di ascolto del disagio maschile che sfocia in violenza, a centri pubblici o del terzo settore che lavorano in modo strutturato con autori di violenza. Non è un terreno del tutto nuovo: ci sono esperienze iniziate vari anni fa, come l’intervento nel carcere di Bollate o il consultorio Caritas di Bolzano. Ma è negli ultimi anni che si sono andate consolidando esperienze orientate al lavoro con uomini che abbiano agito violenza nell’ambito di relazioni con compagne, amiche, colleghe.
Le due esperienze consolidate sono quella promossa dal Cerchio degli uomini di Torino e del Centro uomini maltrattanti di Firenze . A queste si aggiunge l’esperienza della Ausl di Modena: la prima iniziativa pubblica nel campo che, significativamente, si definisce “liberiamoci dalla violenza, centro di accompagnamento al cambiamento per uomini”; ldv@ausl.mo.it .
Dopo queste esperienze iniziali stanno fiorendo in questi mesi molte iniziative che mostrano una nuova consapevolezza del problema da parte degli enti locali e degli operatori ma che rischiano di essere segnate dall’improvvisazione e dalla scarsa consapevolezza della complessità del fenomeno. La crescita di iniziative indirizzate agli uomini ha dunque un segno positivo, inverte finalmente uno strabismo nello sguardo pubblico sulla violenza e comincia a riempire un vuoto nell’intervento sociale sul fenomeno. Ma nasconde anche alcuni rischi e alcune insidie che vanno esplicitati per evitare errori e distorsioni.
Uno dei nodi è che, mentre i centri antiviolenza sono nati da un percorso politico delle donne per poi produrre un lavoro quotidiano fatto anche di servizi, professionalità e competenze, per i centri che lavorano con uomini il percorso è invertito: iniziative nate a partire da un approccio professionale si misurano con l’impossibilità di affrontare un problema come quello della violenza nelle relazioni tra i sessi senza una riflessione politica sulla sua natura sociale e culturale, sul suo rinviare continuamente a dinamiche di potere, a rappresentazioni sociali stereotipate di attitudini e modalità di relazione.
Riflettere su questa dimensione complessa e sulla necessità di uno sguardo che la comprenda pone due problemi: il primo è la non autosufficienza dei saperi in gioco. Non è possibile ridurre il problema della violenza maschile contro le donne a disagio psicologico, o a dinamica relazionale della singola coppia, o a problema proprio di una specifica cultura o associato a una situazione di marginalità.
Non si tratta semplicemente della necessità di una integrazione del livello socio-culturale con quello relazionale e psicologico, ma di rimettere tutto in discussione .
Il secondo nodo problematico è la tentazione continua di mettere una distanza dal problema e dalla dimensione perturbante della violenza. Specchiarsi nell’altra/o, riconoscere frammenti della propria vita nei racconti di chi vive una relazione segnata dalla violenza è un’esperienza problematica. Il desiderio di pensare che quella vicenda non ci riguardi, che non sarebbe mai potuta accadere a noi è forte. Anche per una donna può essere presente la spinta a dire: “a me non sarebbe successo, non avrei accettato quel passaggio, non sarei restata tanti anni in una relazione malata, avrei capito com’era quell’uomo, non avrei accettato di smettere di lavorare”. Per un uomo che si confronti con altri uomini che abbiano agito violenza questa tentazione di distanziamento è, se possibile, ancora più forte.
Il rischio di fare riferimento al proprio sapere formalizzato non sta, quindi, soltanto nella mancata percezione del limite di questo sapere ma nel farne uno schermo che ci protegge e ci impedisce di misurarci realmente con il problema: indossare un camice bianco, un ruolo, dal quale giudicare o accogliere senza mettersi in gioco.
L’attenzione all’ascolto degli uomini, delle loro ragioni, delle loro narrazioni e rappresentazioni si mostra come terreno ineludibile ma al tempo stesso ambiguo. Il sospetto di collusività, più che la preoccupazione di una competizione per l’accesso a risorse sempre più limitate (è evidente che centri antiviolenza, e interventi con uomini violenti sono parte di un comune lavoro di rete), ha spesso determinato legittime diffidenze delle donne. Appare necessario che i programmi per uomini autori di violenza siano finanziati secondo presupposti che garantiscano dal rischio di sottrarre risorse ai servizi di supporto alle vittime.
Per questo la bozza di linee guida discussa da una rete di centri impegnati nel campo (di cui dirò in seguito) precisa che “Per svolgere un’azione efficace sulla violenza nelle relazioni affettive, i programmi per uomini autori di violenza devono essere parte di un sistema d’intervento integrato e partecipare attivamente a collaborazioni e a strategie di lavoro di rete contro la violenza domestica; particolarmente importante resta dunque la collaborazione a stretto contatto con servizi per le donne vittime di violenze e i loro bambini.” Questa logica di collaborazione diventa forse altro quando si prefigura una sorta di “supervisione o tutela” proponendo “l’inclusione di rappresentanti provenienti dai servizi di supporto alle donne in qualità di esperti nei comitati direttivi e commissioni consultive dei programmi per uomini autori di violenza.”
Su questo dibattito ha fatto il punto per la prima volta il testo pubblicato da le Nove , “Il lato oscuro degli uomini[1]” che offre un rassegna critica delle esperienze italiane e ospita interventi di uomini impegnati nella riflessione sulla costruzione sociale del maschile. Il dialogo tra le ricercatrici do le Nove e Maschile Plurale ha avuto un primo appuntamento lo scorso anno a Bologna. Il titolo dell’incontro era: “La violenza maschile sulle donne al di fuori dell’emergenza. Per un ripensamento della convivenza tra uomini e donne” e proponeva un “confronto tra l’esperienza dei centri antiviolenza, delle case delle donne maltrattate e quella dei centri per uomini autori di violenza”. L’incontro proponeva soprattutto delle domande: da che tipo di percorso nascono questi nuovi centri? questo moltiplicarsi di iniziative rivolte ad uomini è il frutto di una maturazione culturale e politica o è semplicemente una moda, che nasconde problemi e contraddizioni? che tipo di competenze e risorse culturali, professionali e umane si stanno mettono in campo? Val la pena investire risorse pubbliche – già scarse - per percorsi di accompagnamento al cambiamento verso uomini autori di violenza? ascoltare e trattare la violenza maschile in centri specializzati, e dunque riconoscere un disagio maschile, significa forse psicologizzare, medicalizzare o dare adito ad ulteriori forme di deresponsabilizzazione per questi uomini? o al contrario è un efficace strumento di presa di coscienza e di cambiamento personale e sociale? che rapporto c'è tra queste iniziative rivolte a singoli individui e un lavoro culturale e politico di prevenzione della violenza maschile? queste realtà riescono a interrogare o a sensibilizzare anche la comunità locale o rimangono un luogo per addetti ai lavori, tutto sommato marginali rispetto ai più ampi processi sociali? come si muovono, con che consapevolezza, gli uomini e le donne attive in queste esperienze? I centri antiviolenza e i centri rivolti agli uomini sono soggetti che muovono nello stessa direzione, e che quindi possono collaborare e sostenersi reciprocamente (come mostrano le esperienze di altri paesi), oppure sottintendono letture, sensibilità e obiettivi differenti nel contrasto alla violenza? E soprattutto, sono maturati i tempi per un confronto e un impegno pubblico comune di uomini e donne in quest'ambito? L'apporto attivo degli uomini può dare un contributo importante o decisivo?
Ho riportato molte domande di allora perché mi pare diano il senso della complessità e della riflessione che la nascita di iniziative rivolte agli uomini violenti sollecita.
Successivamente, il 15 febbraio scorso, si è svolto un incontro nazionale, promosso da Cam, centro uomini maltrattanti di Firenze che, proprio a fronte della disomogeneità delle esperienze in corso e del rischio di improvvisazione ha provato a proporre un quadro comune di riferimento. Il documento prodotto, una proposta di linee guida, dichiara infatti di voler “garantire la qualità del lavoro e, più in particolare, ad assicurare la sicurezza delle donne e dei minori contenendo il rischio che interventi inappropriati sugli uomini comportino conseguenze negative per le compagne e i bambini”. Le indicazioni proposte si ispirano in parte alle linee guida europee emerse dal progetto “Work with Perpetrators of Domestic Violence in Europe – WWP”[2] .
Ma questa volontà di formalizzazione rischia di portare anch’essa alcuni rischi evidenti. Il primo, dalla lettura del documento, è proprio la rappresentazione del lavoro con uomini che abbiano agito violenza in termini riduttivi di “trattamento” (al contrario di quanto indicato nelle linee guida europee). Al tempo stesso il documento afferma che “il maltrattamento domestico non è visto come una forma di patologia, ma piuttosto come la declinazione di un complesso intreccio di aspetti sociali, culturali, psicologici e relazionali.” Forse la necessaria attenzione alla qualità dei progetti e alla formazione culturale, personale e professionale di chi opera in questi centri andrebbe posta non tanto nei termini della definizione di una sorta di “albo” come barriera all’ingresso in un “mercato” che richiede una regolazione. La ragione è evidente: nessuno oggi detiene una metodologia e un approccio teorico stabilizzati, autosufficienti e verificati nella loro efficacia. Anche per questo la definizione stringente del profilo professionale degli operatori e della durata della loro esperienza per accedere ai “servizi” appare a volte rigida e non corrispondente alla pluralità di esperienze in corso. Questa pluralità riguarda anche gli ambiti e i livelli di gravità. Sarebbe qui troppo lungo descrivere le diverse possibilità di interventi: a titolo di esempio si possono ricordare il lavoro in carcere con uomini condannati, il lavoro con uomini in semilibertà che accedono in forma volontaria o in forma obbligatoria, l’accesso anonimo a servizi come il telefono di ascolto attivo a Torino, la partecipazione a percorsi più strutturati, a interventi psicoterapeutici.
La stessa necessità di un riferimento a una riflessione politico-culturale sulla violenza tra i sessi, se assunta in una logica normativa e prescrittiva rischia di irrigidirsi in un richiamo normativo. Le richiamate linee guida affermano che “Ogni programma per autori inoltre assume un’esplicita visione teorica, tale da includere, senza limitarvisi, gli aspetti seguenti: a)teoria di genere: valorizzazione dell’elaborazione femminista e riconoscimento dell’esistenza di una diseguale gestione di potere nelle dinamiche di genere e nei ruoli relativi alla mascolinità e femminilità, con rilevanza a livello individuale, sociale, culturale, professionale, religioso e politico.” La consapevolezza della dimensione complessa del problema chiede di non separare il confronto tra centri che svolgono il “trattamento dei maltrattanti” e esperienze politico-associative di uomini che tentano di riflettere sulle radici culturali della violenza maschile contro le donne.
Nel lavoro sulla violenza maschile, insomma, si cominciano a percorrere i primi passi. Va fatto con consapevolezza del limite delle competenze, va fatto nella consapevolezza che la dimensione sociale della violenza ci dice che non si tratta di “guarire gli uomini violenti” e che non si può agire separando pratica politica, consapevolezza personale, competenza professionale e confronto tra uomini.
Di questo si discuterà nell’incontro nazionale che, di nuovo, gli uomini di Maschile Plurale e le ricercatrici di le Nove propongono per il prossimo 31 maggio.
NDR: questo articolo è tratto da un testo più lungo, si allega la versione integrale.
[1] Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento (A cura di A. Bozzoli, M. Merelli, M.G. Ruggerini, Ediesse 2013)
[2] Dichiarazione del rispetto dei principi e standard minimi di pratica 2004, WWP – Work with Perpetrators of Domestic Violence in Europe – Daphne II Project 2006 – 2008; www.work-with-perpetrators.eu