Il decreto "Rilancio" include finalmente le assistenti familiari e domestiche ma purtroppo in modo ancora parziale, sopratutto pensando al futuro post-emergenza. Maddalena Vianello intervista le ricercatrici e le attiviste che hanno lanciato l'appello Verso una democrazia della cura
Tra gli effetti di questa pandemia c’è l’aver mostrato la centralità e la necessità del lavoro di cura. Eppure, significativamente il cosiddetto decreto Cura Italia, aveva dimenticato proprio le lavoratrici della cura: colf, assistenti familiari (badanti). In questo paradosso precipitano due questioni che il nostro paese non ha mai pienamente affrontato e che oggi non sono più rinviabili, pena l’arretramento sul terreno dei diritti delle donne e la nascita di nuove e profonde disuguaglianze e ingiustizie.
Da un lato la nostra organizzazione sociale – persino il nostro welfare – continua a fare affidamento sul lavoro gratuito delle donne o di altre figure parentali, dall’altro si basa in gran parte sul lavoro retribuito di una schiera di colf, badanti e baby-sitter spesso straniere e ancor più spesso in nero, o senza contratti pienamente regolari.
Nella quasi totalità le donne arrivano in Italia in cerca d’occupazione e incontrano lavori che si traducono quasi sempre in lavoro di cura. Accudiscono bambini, puliscono case, offrono assistenza a persone non autosufficienti o molto anziane. Sono indispensabili sia al nostro benessere individuale e familiare che al welfare collettivo. Buona parte della autonomia e della possibilità di lavorare di tante donne italiane è possibile grazie al loro lavoro.
Reagendo alle lacune del decreto Cura Italia, voi (Claudia Alemani, Lucia Amorosi, Beatrice Busi, Raffaella Maioni, Sabrina Marchetti, Raffaella Sarti, Olga Turrini, Francesca Alice Vianello e Gianfranco Zucca) avete lanciato su inGenere l'appello Verso una democrazia della Cura che ha raccolto numerose adesioni. L’appello parte dalla situazione delle lavoratrici domestiche e della cura per fare una proposta di respiro molto più ampio, che ha al centro una riflessione femminista sulla cura.
Quali sono le misure necessarie per tutelare le lavoratrici della cura sul piano lavorativo e della salute in questa emergenza sanitaria che le vede a stretto contatto con le persone più fragili e spesso bloccate in Italia senza la possibilità di poter far ritorno nei loro paesi di origine in caso di perdita dell’occupazione?
Le misure possono essere di diverso tipo. Una prima tutela necessaria è quella legata all’uso di dispositivi come mascherine e guanti che ora il Decreto Rilancio prevede, relativamente alle mascherine, nell’art. 66 anche se non chiarisce chi debba fornirle alla lavoratrice.
C’è poi il problema del sostegno al reddito. Il decreto “Cura Italia” con un paradosso inaccettabile ha escluso le lavoratrici della cura dalle misure previste per le altre categorie, collocandosi nel solco di una lunga e triste tradizione normativa che tratta queste lavoratrici come se non fossero lavoratrici a pieno titolo. In questo senso il “Cura Italia” non ha previsto, per loro, il divieto di licenziamento, la cassa integrazione in deroga, l’indennità e neppure il bonus babysitter. Il decreto “Rilancio” introduce una indennità per “i lavoratori domestici” (art. 85). Da un lato, il fatto che ora si preveda una indennità anche per queste lavoratrici, forse anche in risposta al moto di sdegno di tante persone per la precedente esclusione, è senz’altro positivo. Dall’altro, tuttavia, per colf e badanti si riconosce un’indennità di 500 euro e per i soli mesi di aprile e maggio: il mese di marzo non viene recuperato e l’indennità è più bassa di quella prevista per gli altri lavoratori e lavoratrici, cosa che finisce per ribadire un trattamento differenziale. Inoltre, se si può condividere la (possibile) logica che può forse aver portato a escludere da questa indennità le lavoratrici coresidenti, è invece incomprensibile l’esclusione delle persone che lavorano meno di dieci ore alla settimana. Al limite l’indennità potrebbe essere scalata in base al numero di ore. Neanche il bonus babysitter è stato esteso a queste lavoratrici, come se non avessero bisogno anche loro di un aiuto in questa fase in cui bambini e ragazzi non vanno al nido o a scuola (o forse sono percepite solo come erogatrici di un servizio di cura e non come possibili fruitrici di tali servizi).
Questa esclusione rimanda peraltro a una serie di problemi che da sempre caratterizzano la legislazione relativa alle lavoratrici domestiche per quel che riguarda i diritti di maternità, essendo escluse da una parte delle tutele contro il licenziamento e dal congedo parentale: questioni aperte sulle quali sarebbe davvero arrivato il momento di intervenire.
Analogamente le lavoratrici domestiche, in caso di malattia, non hanno diritto alla copertura da parte dell’INPS; sono i datori di lavoro che devono provvedere al pagamento del salario, ma per un periodo limitato compreso tra un minimo di 8 a un massimo di 15 giorni. Nel caso del contagio da Covid-19 avvenuto sul posto di lavoro questa limitazione è stata aggirata considerandolo un infortunio sul lavoro che ricade sotto la copertura dell’INAIL. In ogni caso, sarebbe più che mai opportuno cogliere l’occasione di questa emergenza sanitaria che rende più che mai evidente l’importanza della tutela della salute per il benessere individuale e collettivo, per rimediare a una situazione chiaramente discriminante nei confronti delle lavoratrici domestiche.
Oltre l’emergenza, c’è un tema che riguarda una più generale riforma delle politiche migratorie, quali sarebbero oggi i provvedimenti necessari a far emergere il lavoro nero e grigio e a tutelare maggiormente il lavoro di chi opera in questo ambito e in particolare delle donne straniere?
Il decreto "Rilancio" prevede (art. 103) l’emersione del sommerso, sia per rapporti di lavoro con stranieri privi di documenti di soggiorno o di documenti di soggiorno validi ma scaduti che in quanto tali sono condannati a lavorare in nero, sia per rapporti di lavoro non denunciati con italiani o stranieri legalmente presenti in Italia. Questo senza dubbio è un provvedimento importante, ma di corto respiro: ci si domanda cosa avverrà di queste persone una volta terminato il periodo di regolarizzazione di sei mesi, se non trovano un lavoro che consenta di ottenere un permesso di soggiorno.
Le politiche di contrasto al lavoro nero non possono basarsi costantemente su provvedimenti di regolarizzazione emergenziali; soprattutto in relazione al sommerso legato all’immigrazione, prevedere politiche migratorie che consentano un afflusso legale di immigrati e la loro effettiva e stabile inclusione nel tessuto sociale è una premessa indispensabile per non ricominciare il ciclo delle regolarizzazioni/chiusure che creano inevitabilmente le premesse per la diffusione dell’irregolarità come abbiamo già visto accadere in passato. Il fatto che questa emergenza ci abbia messo così brutalmente di fronte alla nostra dipendenza, come paese, dal lavoro degli immigrati dovrebbe forse insegnarci qualcosa.
Di fronte a questa storica arretratezza voi giustamente proponete di rovesciare l’ottica e di mettere al centro della nostra ripartenza, anche guardando a un modello basato sulla presa in carico comunitaria delle persone vulnerabili (community-centered), la questione della cura. Fragilità, vulnerabilità, interdipendenza delle persone sono temi cari alla riflessione femminista. Il vostro appello ci sollecita a guardare a una vera e propria democrazia della cura, sicuramente una prospettiva utile per una società nuova. Cosa vuol dire per voi?
La riflessione femminista sulla cura è molto ampia. Il riferimento specifico qui è agli studi di Joan Tronto, una femminista americana autrice del libro Caring Democracy (2013). Tronto critica i sistemi capitalisti neoliberisti che esaltano il mercato e considerano la cura come una faccenda domestica sostanzialmente come compito femminile. La proposta è appunto quella di ribaltare la prospettiva, di mettere al centro della vita politica un’idea di cura perseguita, insieme, da tutta la cittadinanza.
Ci siamo dunque ispirate a questa immagine potente della democrazia della cura: l’emergenza ha fatto aprire gli occhi dell’opinione pubblica sulla necessità di occuparsi del benessere delle persone, e sulla impossibilità di separare il benessere degli uni da quello degli altri, sulla nostra interdipendenza. La contagiosità del virus mette a nudo l’intensità delle relazioni che, volenti o nolenti, legano ciascuno/a di noi alle altre persone. Anche in un’ottica individualistica – che non ci appartiene – è ormai chiaro che assicurare la salute di tutti appare funzionale al mantenimento della salute e del benessere di ciascuno/a.
Mettere la cura al centro significa da un lato ampliare la capacità di presa in carico del sistema sanitario nazionale, ma dall’altro sviluppare anche una rete di servizi a livello territoriale molto più fitta ed efficiente di quella esistente. Su questi due fronti il Decreto Rilancio prevede una serie di provvedimenti che sembrano andare nella giusta direzione, anche se ancora non abbiamo potuto analizzarli in dettaglio visto che il decreto è molto corposo. Al contempo preoccupa molto il fatto che l’isolamento domestico, lo smart working, l’attività scolastica online e l’esclusione dai centri estivi dei bambini minori di tre anni stia al contrario resuscitando, seppur in un contesto nuovo e per certi versi “modernizzato”, una relazione tutt’altro che smart tra donne e cura, in totale contraddizione con l’idea – centrale nella proposta della democrazia della cura – che la cura sia e debba essere una preoccupazione, un atteggiamento, un modo di porsi di tutte e tutti, non solo delle donne. Non una fonte di stress, emarginazione, frustrazione, per non dire abbrutimento di chi la “eroga”, senza poi poterne godere, ma una attenzione, da parte di tutte e tutti, allo star bene. Tutte e tutti, anche chi la cura la fornisce in modo retribuito.
Articolo pubblicato in contemporanea con Immagina.eu
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