Io concilio. Andrea

Politiche
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Io sono un padre egoista e la responsabilità della crescita dei miei figli è un lusso che voglio a tutti i costi potermi permettere. Fino al 2007 ero il direttore di una importante società di servizi per la PA: ritmi di lavoro pesanti, progetti innovativi, parecchi sabati in ufficio ma anche molte soddisfazioni. Con mia moglie facevamo una bella vita da sposini, viaggi, cinema e quello che ci piaceva di più.

L’arrivo del primo pupo fu la grande festa che potete immaginare: di viaggi ne avevamo fatti abbastanza, i ristoranti della zona li conoscevamo tutti e il desiderio e la curiosità di essere genitori furono subito al primo posto. Crediamo nella nascita come evento di rottura col passato, volevamo restituire quello che avevamo ricevuto, dare al futuro nuove possibilità.

Per fortuna, mia moglie ha un lavoro dipendente e ha potuto allungare la maternità obbligatoria con tutta la facoltativa. In quel periodo io, quando c’ero, provavo a esserci molto. È che spesso non c’ero proprio. E, soprattutto, col tempo cominciavo a essere talmente stanco e svuotato di pensieri e adrenalina che era come fossi assente. L’azienda era stata il mio bambino per 8 anni, l’avevo fatta crescere e amata e stentavo a ridurre il tempo dedicato a lei. È come una droga, è difficile da spiegare a chi non ci è passato. Per fortuna in casa c’era un mondo ben disposto a darmi benevoli schiaffoni.

Nei primi mesi di vita di mio figlio ho realizzato in fretta come ciò che m’interessava capire e vivere si svolgesse sempre meno in ufficio o nelle missioni di lavoro. Nessuna sfida professionale valeva in quel momento cucinare per lui ingredienti che mai aveva gustato in vita sua o farmi vomitare nel collo mentre provavo a farlo dormire. Nessuna riunione valeva mezz’ora di aeroplanino o il portarlo dal pediatra. Nessuna gara d’appalto vinta valeva la vita quotidiana con lui e mia moglie. Sì, perché c’era anche da conoscere una donna nuova, che era diventata madre.

Ebbi presto certezza di come aver parte attiva nella crescita di mio figlio fosse la cosa più importante e interessante da fare nella vita (la mia prima di tutto, lo ammetto, poi spero anche sua). Mi è da subito sembrato importante, come padre certo ma anche più in generale come uomo. Il tempo intanto passava e a settembre 2007 sarebbe arrivato l’inserimento al nido dell’allegro pupetto e mia moglie doveva rientrare al lavoro. Noi non abbiamo nonni e parenti a disposizione quotidiana, né vicini servizievoli. E la babysitter non era la nostra scelta.

Una mattina di luglio mi sono licenziato. La cosa era nell’aria ma l’ho detto a mia moglie solo a cose fatte. Senza nessun lavoro alternativo in vista. Ero felice, disoccupato e sollevato. Doppiamente felice quando anche lei approvò in pieno la mia decisione, sicura che da quello sarebbe nata una vita migliore per tutta la famiglia. Due mesi dopo ero l’unico papà sdraiato sul pavimento del nido a osservare divertito i tentativi impacciati di venti nanetti nello scoprire lo spazio fuori dall’abbraccio della famiglia.

Certo, lo so bene, nella mia decisione è stato cruciale l’avere a disposizione un TFR in grado di permettermi diversi mesi di sabatico e una estesa rete di relazioni su cui lavorare per ricostruire una qualche fonte di reddito. Fare il papà era per me tutt’uno col dovermi reinventare un lavoro che consentisse di rimanere tanto tempo a casa. Volevo di nuovo studiare, vedere il mondo fuori dalla scatola aziendale, riprendere in mano la costruzione libera del futuro e non solo del budget. Mi ci sono messo con cocciutaggine.

I bambini sono ancore agganciate alle nuvole e con la loro concretezza e imprevedibilità ti portano lontano. Basta fidarsi.

Ho aperto la partita IVA e da sette anni mi occupo della progettazione di politiche e interventi per l’occupazione e lo sviluppo del territorio. In questo periodo osservo le potenzialità e i problemi della collettività e provo a modellare sui territori le tematiche della Innovazione Sociale, dell’industria culturale, della Sharing Economy. I bambini sono parte attiva in quello che faccio, sono beneficiari presenti e futuri, sono interlocutori diretti con i quali confrontarmi.

In casa, io e mia moglie siamo molto intercambiabili. La nostra giornata-tipo comincia con la colazione tutti assieme al tavolo della cucina (nel frattempo è arrivata anche la pupetta che ora ha 5 anni), poi viene l’accompagnamento a scuola e asilo, faccio la spesa al mercato e le chiacchiere con le matrone, alle 9 inizio a lavorare – di solito posando i pc sul tavolo di marmo in cucina. I bimbi finiscono alle 16.30 Di solito mi alterno con mia moglie per accompagnarli alle attività pomeridiane. La cena è alle 19.15, se posso la preparo io, e siamo di nuovo tutti e quattro attorno al tavolo, con la televisione spenta, distante, in un’altra stanza.

Sul piano professionale questa vita mi concede occasioni interessanti. Specialmente in questo periodo in cui c’è da pianificare interventi per lo sviluppo e l’occupazione per il periodo 2014-2020. Lavoro il giusto e solo se il prezzo è giusto. Se ci sono dei bivi, decido consultandomi con mia moglie e non ho più la responsabilità di 150 dipendenti a cui pagare lo stipendio e per il bene dei quali dover ingoiare rospi controvoglia. Sì, convivo con la lama della indefinitezza del futuro più o meno conficcata nel costato. In questo momento ho una ‘visibilità’ di sette-otto mesi di lavoro e già mi sembra una gran cosa.

Da un po’ ho ripreso a viaggiare per lavoro, in Italia e Europa, circa una volta al mese. Ormai il legame con i bambini è così forte che la mia onnipresenza fisica è per tutti meno importante. 

Sento di aver fatto la scelta giusta. Di certo mi sono semplificato di parecchio l’essere genitore. Li conosco bene e non li vedo solo quando sono stanchi o in vacanza. Le decisioni sulle scelte educative vengono da sole. Qualcuno mi disse che i primi tre anni del bambino sono i più importanti nella costruzione della personalità, nello sviluppo dei legami, nella costruzione di un approccio alla comprensione del mondo. Sono d’accordo, mi permetto di aggiungere che sono ugualmente importanti anche per il papà.

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