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Ripresa: la valutazione di genere richiede chiarezza. Le parole non bastano, servono i numeri. Cominciamo da un obiettivo preciso, per avvicinarci alla media europea e uscire dalla crisi servono 1.554.503 occupate in più

1.554.503
occupate in più

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Foto: Unsplash/ Kristina Stepanidenko

Le donne in Italia lavorano di meno e guadagnano di meno, ma il vero problema è che lavorano di meno. Già prima della pandemia l’Italia si trovava in una situazione paradossale: un bassissimo tasso di occupazione femminile, che con grande lentezza e fatica ha sfiorato il 50% nel 2019 tenendosi ben al di sotto della media Europea (63%) per la fascia di età 15-64 nello stesso anno.

Nel confronto europeo, l’Italia è infatti terzultima in classifica. Eppure, sappiamo dai dati che se le donne lavorano le famiglie sono meno a rischio di povertà, si fanno più figli, la ripresa economica accelera. Insomma, l’indipendenza di una donna è un obiettivo che arricchisce tutti e se il mondo del lavoro diventa più vario, diventa anche migliore e più vicino alle esigenze di tutti.

Anche per questo, l’occupazione femminile deve diventare una priorità. Ma per diventare una priorità, le parole non bastano, servono i numeri, serve fissare un traguardo preciso.

Noi diciamo il 60% delle occupate entro il 2030.

60% perché corrisponde all’obiettivo che l’Unione europea si era data per il 2010 – il cosiddetto obiettivo di Lisbona – ed è poco al di sotto della media europea (63% nel 2019, nella fascia 15-64 anni nell’Ue27). Sapere che altri paesi ci sono arrivati ci dice che l’obiettivo è realistico.

2030 perché si tratta di un traguardo di lungo periodo, che va ben oltre l’orizzonte temporale del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr). E perché il 2030 è l'anno di riferimento dell’Agenda delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, che alla piena e buona occupazione per donne, uomini, giovani e persone con disabilità ha dedicato l’obiettivo 8.

Il 60% è ancora lontano dal traguardo della piena occupazione, e allo stesso tempo è un traguardo ambizioso. Questo non significa che sia irraggiungibile.

Considerato che le donne, come del resto gli uomini, in età lavorativa andranno diminuendo nei prossimi anni seguendo un andamento demografico in discesa, si possono stimare i posti aggiuntivi necessari a centrare il traguardo in 1.554.503 occupate in più.[1]

Ciò significa una media di 160 mila nuovi posti di lavoro l’anno a iniziare da oggi. L’obiettivo è solo moderatamente ambizioso, ma potenzialmente raggiungibile se consideriamo, ad esempio, che tra il 2000 e il 2008 si è verificato un aumento di 1.557.800 occupate, con una media di circa 195.000 aggiunte l’anno (Figura 1). Certo, si è trattato di un piccolo boom, e di molto lavoro a tempo parziale e di part-time involontario, ma se il recovery dovesse funzionare un boom simile non è impossibile.

Figura1. Variazione assoluta annuale numero occupate 2000-2019

Fonte: Eurostat, nostra elaborazione. Si può notare come, dal 2000 al 2008 le occupate sono cresciute di 1.557.800, più o meno di quanto dovrebbero aumentare tra il 2021 e il 2030 per raggiungere nel 2030 l’obiettivo del 60%.

L’obiettivo non sarà raggiunto solo intervenendo dal lato dell’offerta, rendendo cioè possibile la partecipazione al mercato del lavoro attraverso la creazione di posti all’asilo nido prevista dal Pnrr o attraverso l’allungamento e la flessibilità degli orari delle scuole o l’aumento dei congedi di paternità e parentali.   

Se, per esempio, si aumentassero gli asili fino a coprire il 40% dell’infanzia 0-3 anni e si allungasse l’orario di nidi e materne per garantire un vero tempo pieno compatibile con il lavoro dei genitori si potrebbero creare circa 170 mila posti nel giro di sei sette anni.[2] Ma sarebbe comunque insufficiente rispetto al milione e mezzo di occupate in più di cui stiamo parlando.

Quello che serve è incrementare l’occupazione delle donne, soprattutto quelle con basso livello d’istruzione (al più la licenza di scuola media) in tutti i settori che si espanderanno, a partire da quelli che riceveranno il grosso delle risorse dei fondi del Next Generation, i lavori cosiddetti ‘green’ e quelli ‘digitali’, a cui verranno destinati rispettivamente quasi 70 miliardi di euro e oltre 46 miliardi di euro dei 223 miliardi previsti per l’Italia.

Si tratta di settori in cui domina l’occupazione maschile, in parte per una stereotipizzazione delle competenze, e quindi delle scelte scolastiche, che vedono soprattutto i maschi intraprendere carriere tecniche e scientifiche.

Superare questa segregazione educativa richiede tempo, ma qualcosa si può fare subito, anzi si deve, approfittando del fatto che un enorme sforzo di formazione dovrà essere intrapreso comunque, per uomini e donne, perché le competenze in questi settori sono già carenti.

È lecito chiedersi se tutto ciò sia chiaro al governo, che ha chiuso le porte a un’interlocuzione sui contenuti e sulle politiche. L’ultima promessa è stata che tra i vari criteri che verranno usati per esaminare i progetti del piano di ripresa ci sarà anche la valutazione del contributo di ogni singolo progetto alla parità di genere.

Ma la valutazione richiede chiarezza sugli obbiettivi e la loro quantificazione. Quali aspetti delle disparità di genere sono ritenuti prioritari e di quanto vogliamo che diminuiscano? 

Cominciamo con un obbiettivo chiaro per le donne: 1.554.503 occupate in più entro il 2030.

Note

[1] Calcolate su dati Eurostat, nella fascia 15-64 per raggiungere nell’anno di riferimento il 60% rispetto al 2020, e tenendo conto delle previsioni demografiche. Consulta la tabella con le simulazioni per anno.

[2] Francesca Bettio, Elena Gentili, Quota quaranta per arrivare a sessanta, inGenere, ottobre 2020