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Ricatti, negazioni, mancati pagamenti. Tutte le facce di una violenza diffusa e così poco riconosciuta, quella economica

Se i conti non tornano. La
violenza attraverso i soldi

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Foto: Unsplash/ Ben Rosett

Storicamente la posizione di soggezione delle donne, nella società così come nel contesto familiare, è stata mantenuta anche negando l’accesso alle risorse economiche derivanti dall’autonoma gestione del patrimonio familiare o da un’attività lavorativa equamente retribuita. Per legge o per tradizione le donne sono state e rimangono ancora in alcuni paesi escluse dall’asse ereditario.

La progressiva limitazione all’attività lavorativa, il depauperamento del patrimonio, l’impedimento di conoscere il reddito familiare, di avere una carta di credito o un bancomat, di usare il proprio denaro e il costante controllo su quanto e come si spende, fino al ricatto economico in fase di separazione e al mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, anche quello stabilito dall’autorità giudiziaria per i figli, costituiscono forme di violenza economica: un “insieme di atti di violenza finalizzati a mantenere la vittima in una condizione di subordinazione e dipendenza, impedendole l’accesso alle risorse economiche, sfruttandone la capacità di guadagno, limitandone l’accesso ai mezzi necessari per l’indipendenza, resistenza e fuga”[1].

Grazie al lavoro di sensibilizzazione condotto sul tema dalle organizzazioni di donne della società civile, la violenza economica è stata oggetto di attenzione in sede internazionale quale componente della condotta di controllo coercitivo imposto alle donne dagli uomini violenti nelle relazioni di intimità, fino a essere codificata dall’articolo 3 della Convenzione di Istanbul.

La violenza economica rimane tuttavia una forma di compressione della libertà personale delle donne poco riconosciuta nella sua gravità e più diffusa di quanto ufficialmente rilevato. 

Se infatti l’Istat nel 2016 ha registrato una diminuzione dell’incidenza delle condotte di controllo economico (dal 2% rilevato nel 2006 si è passati all’1,4 %)[2], queste rimangono però molto diffuse, sebbene di difficile identificazione da parte delle donne come modalità maltrattante. Dalla nostra esperienza, infatti, nelle situazioni di maltrattamento, le donne subiscono sistematicamente limitazioni sul piano dell’utilizzo delle risorse economiche personali e familiari. Alla fine della relazione con un compagno maltrattante, le donne si ritrovano depauperate e indebitate: accade che nel corso della relazione i compagni arrivino a gestire il loro patrimonio personale, intestano alle donne prestiti poi non rimborsati o beni mobili registrati su cui non pagano tasse e multe, finanche società che mal gestite non fruttano utili alle donne, ma solo oneri che alla fine della relazione ricadono su di loro ostacolandone nuovi progetti e iniziative.

Anche in presenza di provvedimenti giudiziari, le donne hanno difficoltà a ottenere il regolare pagamento dell’assegno di mantenimento stabilito in loro favore e in favore dei figli.

Nel nostro ordinamento la violenza economica non è espressamente definita dai codici ed è stata menzionata per la prima volta dall’articolo 3 del decreto 93/2013 convertito dalla legge 119/2013 che disciplina l’istituto dell’ammonimento.

Le restrizioni economiche, dal controllo dell’impiego delle proprie risorse fino alle privazioni economiche, possono integrare diversi reati: maltrattamenti (articolo 572 del codice penale), violenza privata (articolo 610 del codice penale), ma anche, nei casi di controllo più pervasivo e limitazione assoluta della libertà personale, come riduzione e mantenimento in schiavitù (articolo 600 del codice penale). La privazione parziale o totale delle risorse economiche necessarie per il sostentamento personale e dei figli, condotta che emerge più di tutte le forme di violenza economica, è punita dall’articolo 570 del codice penale (violazione degli obblighi di assistenza familiare), dall’articolo 12 sexies della legge 898 del 1970 e all’articolo 3 della legge 154 del 2006.

La situazione concreta che le donne si ritrovano a vivere all’indomani della cessazione della convivenza è una vera e propria trappola: pur rivendicando l’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, i padri separati declinano il ruolo di genitore in una spartizione paritaria del tempo dei figli, a prescindere dalle esigenze di questi ultimi. Inoltre, sembrano in prevalenza ignorare che la responsabilità genitoriale si declina prevalentemente in obblighi nei confronti dei figli, non già in diritti sopra di loro. Il primo obbligo che lasciano inadempiuto è proprio quello di assistenza materiale e generalmente nel contesto di una serie di atti e condotte controllanti.

Questa situazione è ben descritta nella sentenza del Tribunale di Roma di seguito riportata:

È del tutto plausibile dunque che il mancato versamento dell’assegno di mantenimento, protrattosi per anni, a partire da qualche mese dopo la separazione almeno fino alla data della querela, fosse una modalità punitiva e vendicativa nei confronti della (…) in una situazione nella quale egli sarebbe ben stato in grado di adempiere.[3]

Nella pratica processuale, sistematicamente, la tesi difensiva avanzata dagli imputati per esonerarsi dal pagamento del mantenimento è quella dell’incapacità economica a causa della crisi economica, alla quale gli imputati sono soliti ricondurre la perdita dell’occupazione o la diminuzione drastica delle loro risorse. Nella realtà dei singoli casi, oggi, come prima dell’attuale congiuntura economico-sociale, i padri tenuti al mantenimento sono soliti occultare le fonti di reddito e i beni, arrivando anche a dare dimissioni fittizie, a mettere in liquidazione le loro attività o a intestarle a prestanome.

Dall’esperienza maturata nell’assistenza legale alle donne vittime di violenza maschile, ivi compresa quella economica, emerge una diffusa sottovalutazione della gravità della violenza economica e l’inadeguatezza degli istituti giuridici esistenti a garantire alle donne e ai loro figli la disponibilità delle risorse dovute e necessarie per condurre una vita libera e dignitosa.

Gli strumenti civili di tutela del credito spesso infatti sono vanificati dal sistematico occultamento del patrimonio: non ci sono stipendi, beni mobili né immobili da aggredire, perché come sopra già anticipato, gli obbligati se ne liberano. Strumento utile a prevenire questo comportamento sarebbe il sequestro conservativo (articolo 316 del codice di procedura penale): questa misura cautelare reale, cioè che riguarda i beni dell’imputato, risulta però del tutto inadeguata dal momento che può essere richiesta e applicata solo dopo l’inizio del processo, cioè in media dopo un anno e mezzo dalla denuncia e quindi solo dopo che si è svolta l’attività di indagine da parte delle procure con il rinvio a giudizio dell’imputato.

Nel 2016 è divenuto operativo in via sperimentale il fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno[4] con la finalità di intervenire laddove vi sia inadempimento di uno dei genitori. Non abbiamo ancora dati sul suo funzionamento, tuttavia sin dall’elaborazione del decreto attuativo l’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna ha evidenziato la ristrettezza del campo di intervento della misura rispetto alla complessità del problema sociale costituito dall’inadempimento, prevalentemente paterno, degli obblighi di mantenimento.

L’associazione Differenza Donna sta portando avanti una strategia di prevenzione della violenza economica su più livelli. Sul piano della sensibilizzazione collettiva e individuale sulla molteplicità di forme che la violenza economica assume, ciò da un lato per incrementare la capacità delle istituzioni a identificarle nei termini di violenza di genere, dall’altro per aumentare la consapevolezza nelle donne stesse della illiceità di qualsiasi ingerenza o limitazione delle loro scelte economiche quale  manifestazione di un rapporto di potere e di controllo della loro libertà di autodeterminazione. 

Un altro livello di intervento necessario è “di sistema”, riguarda cioè la dimensione sociale in cui si incistano le limitazioni economiche nei rapporti privati: la violenza economica si registra in fatti in continuum con le discriminazioni e prevaricazioni nei confronti delle donne che caratterizzano ancora il mercato del lavoro. In questa dimensione l’azione proposta mira sia alla sensibilizzazione sul fenomeno sia a incoraggiare forme di solidarietà nel contesto lavorativo.

Note

[1] UNWomen, 2015

[2] La violenza contro le donne, Istat, dicembre 2016

[3] Sentenza n.13886/2014 Tribunale Penale di Roma Sez. IV.

[4] Legge 208/2015 e D.M. di attuazione del 15 dicembre 2016

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