Storie

Emozioni e condizionamenti sociali. Ne parliamo con Camilla Endrici, che nel libro 194, diciannove modi per dirlo (Giraldi, 2018), ha raccolto storie e testimonianze di donne che hanno deciso di abortire

Diciannove modi
per dire 194

5 min lettura

Rispetto agli anni in cui la legge che citi nel titolo del tuo libro è nata, l’aborto non è più così presente nel discorso pubblico. E nel privato, quali sono le parole che le donne usano per parlare di aborto, e con chi ne parlano?

Premetto che il lavoro che ho fatto non ha la pretesa di essere una ricerca sociologica, ma nasce da un’esperienza personale, nella quale ho toccato con mano il silenzio che ancora oggi avvolge molte delle donne che decidono di interrompere volontariamente una gravidanza. Quando ho scoperto che il 25% delle donne almeno una volta nella vita abortisce, ho percepito un’incongruenza tra la densità di un fenomeno che viene percepito, nell’immagine pubblica, come eccezionale, e la normalità di questa scelta. Normalità intesa come diffusione, poi è ovvio che ciascuna vive la scelta di abortire con le proprie emozioni. Quando ho scelto di raccogliere storie, perché volevo rompere questo muro di silenzio e soprattutto permettere a noi donne di raccontarci, immediatamente intorno a me il mondo si è popolato di amiche, conoscenti, parenti di amici che avevano abortito e volevano condividere la loro esperienza. In questo la mia è una storia fatta di microstorie. Le parole che le donne che ho incontrato usano per raccontarsi sono spesso parole che riguardano il senso di colpa e la vergogna. E qui è evidente che c’è un retaggio di cultura cattolica, anche in chi non lo è, che risuona. E l’alto tasso di obiettori fa da cassa di risonanza a questa colpevolizzazione della scelta.

In Italia l’obiezione di coscienza è al 70 per cento, con regioni quasi al 90, e strutture fuori legge che non offrono nessun tipo di servizio per l’interruzione volontaria di gravidanza. Forse prima ancora di parlare di aborto avremmo bisogno di chiederci se il diritto alla salute esiste davvero, sei d’accordo?

Certo. Da un punto di vista politico e di lotta, questa è la domanda. Però la donna che si rivolge al sistema sanitario, sia consultorio, ospedale, medico di base, per abortire, spesso non si pone questa domanda. O magari se la pone, ma dopo. In quel momento lei ha un bisogno e quel bisogno spesso viene ostacolato dalla difficoltà di accesso alla procedura medica. Lì, in quel momento, la donna come si sente?

Tra le storie che ti hanno raccontato, qual è stata quella che ti ha colpito di più?

Difficile dirlo. Non c’è una storia che mi ha colpita di più, ognuna a modo suo lo ha fatto. La cosa che mi ha colpito, questo sì, è che quando ho iniziato questo lavoro temevo che il risultato potesse essere noioso e ripetitivo: cosa c’è di diverso tra un aborto e un altro, in fondo? In realtà ogni storia mi ha svelato, in modo totalmente spontaneo, punti di vista diversi per essere raccontata. E non parlo solo dell’esperienza, che ovviamente è soggettiva e pertanto unica. Ma ogni donna ha posto l’accento su momenti o aspetti diversi: la scelta, il rapporto con personale sanitario, il rapporto con gli altri, la sessualità vissuta dopo l’interruzione, il proprio rapporto con la maternità, l’essere figlia prima che madre… Sono davvero tante le angolature, sicuramente più di quelle che io ho raccolto. Probabilmente è stato anche il mio metodo di lavoro a farle emergere: non avevo in mente delle domande prestabilite, né una “scaletta”. Ogni incontro è avvenuto in modo intimo: una passeggiata, una cena, un caffè condiviso: si è stabilito un rapporto all’interno del quale è stato possibile per me dire “raccontami, come vuoi tu” e per chi avevo di fronte iniziare a parlare. È stato tutto molto spontaneo.

Nel tuo libro è molto forte la narrazione del dolore emotivo, che ruolo affidi alla resa pubblica del dramma in un paese che ha ridotto il discorso sull’aborto a una questione morale? Non c’è il rischio di prestare il fianco alla retorica del senso di colpa?

Questo è un punto importante: la retorica del senso di colpa e quella del dolore emotivo sono due cose diverse. Dal mio punto di vista, il senso di colpa è certamente indotto da un contesto sociale e culturale, come dicevo prima di matrice cattolica. Il dolore, quando c’è, viene amplificato da questo contesto. Detto questo però penso che non si possa negare, a se stesse ma anche agli altri, che l’aborto è una scelta che ha a che fare con il nostro corpo di donne, con la nostra identità. È un livello, quello emozionale, che si può scegliere anche di ignorare, più o meno consapevolmente. Per me era importante che non fosse ignorato. Soprattutto perché le tante donne che vivono un aborto con fatica (preferisco usare questa espressione per non connotarla immediatamente di un significato negativo) possano riconoscersi e sentirsi meno sole. Perché la solitudine, questo sì, è un aspetto che ho trovato molto ricorrente nelle testimonianze.

Quanto ha a che fare questo dolore con il condizionamento del giudizio sociale?

Come dicevo poc’anzi, molto nella sua “tonalità”. Di fondo, però, per me una donna in contatto con se stessa, col proprio corpo, con la propria femminilità, intesa anche come capacità procreativa, credo che non resti insensibile di fronte a un’interruzione di gravidanza. Anche quando è vissuta, giustamente, con sollievo.

Perché secondo te le donne nel nostro paese hanno ancora così tanta paura di essere giudicate per le loro scelte? 

Suppongo che molto abbia a che vedere con un’idea di donna molto appiattita sul discorso della maternità, per cui una donna si realizza pienamente, in fondo, in quanto madre.

Le parole che le protagoniste del tuo libro usano per descrivere la loro esperienza hanno tutte a che fare con lo sguardo degli altri. E se le donne iniziassero a inventare un vocabolario proprio?

Questa è una bellissima domanda e ovviamente un obiettivo al quale tendere. Credo che su molte questioni però siamo ancora talmente tanto indietro, che prima di costruire un linguaggio proprio sia necessario rendersi consapevoli esattamente di questo: di quanto il nostro sguardo sia condizionato dall’esterno. Che è esattamente quello che ho cercato di fare in questo libro. Proprio perché non è un saggio, ma una fotografia di quello che è, anche, oggi, la scelta di abortire in Italia. Questo è lo stato dei fatti: un punto di partenza per la riflessione, non certo un punto di arrivo.