Donne al lavoro,
l'Istat suona l'allarme
La buona notizia è che in vent'anni abbiamo avuto 1 milione e 700mila occupate in più. Ma quasi tutte al Nord. Le cattive notizie arrivano con la recessione. Nell'industria il calo dell'occupazione femminile è quasi il doppio di quello degli uomini. E il tasso di occupazione "tiene" solo per il blocco dei pensionamenti
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Vent'anni dopo. Il Rapporto annuale dell'Istat quest'anno è anche occasione di un bilancio più lungo – essendo il ventesimo anno della pubblicazione con la quale a fine maggio l'Istituto di dà numeri e interpretazioni della società ed economia italiane. Un doppio bilancio, dunque. Che si fa particolarmente interessante per i numeri delle donne nel lavoro, nell'istruzione, nelle forme familiari, nella demografia. Tra questi numeri ci sono i pochi, hanno sottolineato i ricercatori dell'Istat nel presentarli, che forniscono qualche elemento di dinamismo in una società abbastanza inchiodata (nelle retribuzioni reali, nella struttura produttiva, così come nella scarsa mobilità sociale). Ma lo sguardo lungo, sui vent'anni, viene poi inevitabilmente a concentrarsi sul 2011, il terzo di recessione: nel quale è messa a dura prova la debole avanzata dell'occupazione femminile, ed emerge ancor di più il contrasto tra le grandi risorse accumulate dalle donne italiane (in termini di istruzione, soprattutto) e la realtà povera del mercato del lavoro.
Dal 1993 al 2011 l'occupazione femminile è aumentata di 1 milione e 700mila unità. Vent'anni fa lavoravano 7,6 milioni di donne, adesso sono 9,3. Negli stessi anni l'occupazione maschile si è ridotta di 40.000 unità. Di conseguenza, si è ridotto il divario occupazionale tra donne e uomini: il rapporto tra tasso di occupazione femminile e quello maschile è passato da 0,56 del 1993 a 0,69 del 2011. Ciononostante, il tasso di occupazione femminile resta uno dei più bassi dell'Ue (il 40,7% nel 2011, contro il 58,5% della media Ue) e lo stesso vale per il rapporto tra occupazione femminile e maschile (quello italiano è più alto solo di quelli di Grecia e Malta). Ma se nell'insieme il ritmo di aumento dell'occupazione femminile non ci ha permesso di ridurre il divario con il resto d'Europa, è poi quando si va a guardare alla sua distribuzione geografica che emerge la nota più dolente: le nuove occupate sono quasi tutte al Centro-Nord (1,5 milioni di lavoratrici in più), e solo in minima parte al Mezzogiorno (196.000). Ma di che lavori si tratta? Dal punto di vista del regime orario, per i due terzi l'aumento dell'occupazione è dovuto al part-time (ed è crescente, da 1/3 al 50% degli ultimi anni, la quota di donne che dichiara che si tratta di un part-time involontario, scelto dal datore di lavoro e non dalla lavoratrice). Quanto al comparto produttivo, l'aumento di occupazione femminile è concentrato nel terziario, mentre dall'inizio degli anni 2000 c'è un costante calo di occupate nell'industria, al ritmo di meno 2,5% all'anno.
Con il che arriviamo al dato sottolineato con un certo allarme nel rapporto Istat, ossia la caduta dell'occupazione femminile nell'industria, che pur essendo una tendenza almeno decennale ha subito un'accelerazione molto forte dall'inizio della crisi: meno 12,7% dal 2009 al 2011, contro il meno 6,3% dell'occupazione maschile. A cosa si deve questo dato? Alla maggior presenza delle donne in comparti, come il tessile, più piagati dalla crisi? Alla loro relativa maggior presenza nei lavori atipici meno tutelati? Alla dimensione d'impresa? Depurando gli indici dall'influenza di questi fattori, l'Istat nota che comunque, a parità di ogni altra condizione, “il rischio di perdere il lavoro nell'industria per una donna è superiore del 40% rispetto a un uomo”.
Come mai allora risulta, nel complesso dell'economia, una relativa tenuta dell'occupazione femminile? I numeri degli ultimi due anni segnalano una stabilità nel 2010, e un aumento (di 110.000 unità) nel 2011. Effetto dovuto all'aumento dell'occupazione delle donne in età più avanzata, per l'innalzamento dell'età di pensionamento nel pubblico impiego; all'aumento del part time involontario; all'aumento del lavoro domestico delle donne immigrate. Nel commentare il generale deterioramento delle condizioni di lavoro delle donne occupate, Linda Laura Sabbadini, dell'Istat, ha sottolineato l'aumento del peso del part time involontario e del sottoinquadramento (ossia le donne hanno accettato lavori che richiedono un titolo di studio più basso di quel che hanno).
Ultimo flash, sulla questione maternità e lavoro. Monitorando la partecipazione delle neomadri al mercato del lavoro, l'Istat racconta cos'è successo alle donne che hanno partorito nel periodo 2009-2010: all'inizio della gravidanza erano occupate il 64,7%, due anni dopo si dichiarano occupate il 53,6%.
Fonte: Istat, Rapporto Annuale 2012
Come mostra il grafico, tra le donne che hanno interrotto il lavoro, la metà dichiara di averlo perso: per licenziamento, contratto scaduto (e non rinnovato). Il 56,1% delle neomadri che non lavorano più dichiara di essersi spontaneamente licenziata (erano di più, il 68,1%, nel 2005), e il 67,1% di queste dichiara di averlo fatto per problemi di conciliazione dei ruoli, mentre il 13,5% per insoddisfazione verso il proprio lavoro, in termini di mansione o retribuzione.