L'economia non è più importante delle persone, e andrebbe ripensata in un'ottica femminista e inclusiva, mettendo al centro il lavoro di cura. Ne parliamo con l'economista indiana Jayati Ghosh, esperta di disuguaglianze e politiche pubbliche

"Dobbiamo smettere di pensare all'economia come a un dio da compiacere. L'economia deve diventare uno strumento per realizzare la società che vogliamo". A pronunciare queste parole è Jayati Ghosh, una delle più rinomate economiste di orientamento femminista a livello mondiale.
Docente di Economia prima alla Jawaharlal Nehru University, a Nuova Delhi, e dal 2021 all’Università del Massachusetts, Ghosh è stata fra le partecipanti di spicco all'ultima conferenza annuale della International association for feminist economics (Iaffe), che ha avuto luogo alla Sapienza Università di Roma dal 3 al 5 luglio 2024, e di cui inGenere è stata media partner.

Nell’intervento sulla risoluzione della crisi del debito sovrano che ha presieduto durante la conferenza, Ghosh ha sottolineato come ci sia bisogno di attivare politiche pubbliche che siano in grado di ridurre le disuguaglianze e aumentare la sicurezza sociale.
Nel suo lavoro di ricerca, Ghosh, che da sempre ha molto a cuore il futuro della società, si concentra perlopiù sui temi delle disuguaglianze e delle politiche pubbliche, analizzando da una prospettiva femminista gli effetti delle politiche neoliberiste e della globalizzazione nei paesi in via di sviluppo. In particolare, la ricerca di Ghosh si focalizza su come queste ultime influenzino i tassi di povertà, le discriminazioni di genere e il progresso ambientale sostenibile.
In occasione della conferenza di Iaffe, le abbiamo rivolto alcune domande.
Professoressa, come possiamo migliorare l’economia e la società partendo da un punto di vista di genere?
L’economia deve seguire i bisogni delle cittadine e non viceversa, poiché la società stessa si poggia sul lavoro di cura gestito dalle donne. Se le donne fossero sostenute e aiutate dalle istituzioni, si potrebbe realizzare un grandissimo cambiamento strutturale.
In che modo la pandemia ha influenzato la vita delle donne a livello economico?
La pandemia ha colpito indiscriminatamente sia gli uomini che le donne nel mercato del lavoro, nella mobilità, nell'accesso ai beni e ai servizi, e via dicendo. Tuttavia, sono state le donne ad averne subito maggiormente le conseguenze e a molteplici livelli. Il primo, le donne sono le persone che mandano avanti la cosiddetta "economia della cura". Le lavoratrici della cura vere e proprie come le infermiere – quelle che possiamo chiamare care workers – insieme alle lavoratrici in prima linea (frontline workers), che forniscono i servizi diretti con il pubblico (last mile services) sono le lavoratrici che hanno patito maggiormente il peso della pandemia in termini di insicurezza fisica, sovraccarico di lavoro, tensione mentale ed emotiva. In secondo luogo, il Covid ha ridotto la mobilità, con un effetto peculiare: infatti, la divisione del lavoro all'interno delle famiglie non è cambiata, rinforzando, allo stesso tempo, il modello sociale che vede la cura gravare sulle donne. In tutto il mondo in via di sviluppo la mobilità delle donne è stata più limitata rispetto a quella degli uomini e per un tempo più prolungato. Fatta eccezione per le lavoratrici in prima linea, che dovevano rischiare tutto per andare a lavorare.
Ci sono altri aspetti da considerare, per cui le donne sono state più penalizzate economicamente dalla crisi generata dalla pandemia?
Un altro livello economico a cui la pandemia ha colpito le donne è il sostentamento. In diversi paesi, molte famiglie hanno visto una diminuzione dei redditi a causa della perdita del lavoro. Specialmente nell’economia informale, dove non esiste una protezione sociale adeguata e dove sono impiegate soprattutto le donne, che hanno dovuto sopportare il peso maggiore di queste difficoltà economiche, tanto più quando i redditi complessivi non erano sufficienti a sostentare il nucleo familiare. C'è poi da considerare l’aumento del lavoro di cura non retribuito. Con le scuole chiuse, le persone malate a casa, spesso anziane, il carico del lavoro di cura non retribuito è aumentato significativamente per le donne. Questo ha ulteriormente limitato il loro tempo e le opportunità di partecipare al lavoro retribuito o di perseguire altre attività fuori casa. Infine, le donne sono rimaste escluse dai benefici sociali. Le misure di protezione sociale adottate durante la pandemia spesso non hanno raggiunto le donne, soprattutto quelle che lavorano nel settore informale. La mancanza di accesso ai sussidi e alle reti di sicurezza sociale ha aggravato la loro vulnerabilità economica e civica.
Riguardo al lavoro di cura non retribuito, quali azioni concrete pensa che dovrebbero essere intraprese anche a livello di politiche?
Le economiste femministe dicono da molto tempo che, per far fronte al lavoro di cura non retribuito e retribuito, abbiamo bisogno delle cosiddette cinque ‘R’. Innanzitutto, riconoscere che esiste. La maggior parte degli economisti e dei decisori politici non lo fa, quindi legittimare l’economia della cura è un passo essenziale da compiere. In secondo luogo, ridurre il più possibile. Nel mio paese, molte donne passano ancora moltissime ore al giorno a procurarsi acqua e legna da ardere. Questa è una parte completamente evitabile di lavoro non retribuito. Si dovrebbe quindi ridurre tutto quel lavoro in modo che l'acqua corrente e il combustibile arrivino direttamente nelle case delle persone attraverso infrastrutture adeguate, per diminuire il tempo e lo sforzo necessari per svolgere questo tipo di compiti. Terzo, redistribuire. C'è molto lavoro di cura, e il problema è che è diviso in maniera non equilibrata. Andrebbe quindi redistribuito tra lo stato e la fornitura pubblica, tra settori privati e pubblici, in modo che non gravi tutto sulle spalle delle donne. Quarto, ricompensare. Il lavoro di cura, sia quello non retribuito che retribuito, va ricompensato adeguatamente. Le persone che svolgono lavori di cura pagati, come infermiere e assistenti sociali, dovrebbero ricevere salari giusti a condizioni di lavoro dignitose, così come le donne costrette ad assumersi tutto l’accudimento della propria famiglia andrebbero dignitosamente remunerate. Quinto, rappresentare. Bisogna assicurarsi che le donne che svolgono i lavori di cura abbiano una rappresentanza adeguata nelle politiche pubbliche e nell’economia. Le voci di chi svolge attività di cura devono essere ascoltate e considerate, per far sì che ci sia un miglioramento delle condizioni di lavoro.
Quali sono i principali problemi che le donne affrontano nell'economia informale?
Innanzitutto, il fatto stesso di essere nell'economia informale per le donne significa non essere realmente protette dal punto di vista legale e sociale ed essere alla mercé delle forze del mercato. Questo è particolarmente svantaggioso per le lavoratrici autonome, che possiedono il loro tempo, gestiscono microimprese, e che, in pratica, diventano le sfruttatrici di se stesse: lavorano molte ore, non rispettano le norme di sicurezza, sopportano lo stress e i rischi della produzione e tutte le incertezze del caso. Inoltre, le donne vivono una situazione peggiore rispetto agli uomini perché, prima di tutto, non hanno accesso al credito bancario secondo le stesse modalità, né agli input o alle strutture di marketing. Spesso ci sono restrizioni sulla loro mobilità, su dove e come possono lavorare: dove possono sedersi, com'è l'infrastruttura che consente loro di operare. In molti casi le donne non sono in grado di percorrere lunghe distanze per andare al lavoro a causa del lavoro di cura non retribuito a cui devono sottostare, fatto di responsabilità domestiche, cura dei figli e altre incombenze. In effetti, è quasi incredibile che le microimprese femminili possano esistere. Le donne con un lavoro informale subordinato sono le più precarie: sono le prime a essere licenziate in qualsiasi riduzione del personale e le ultime a ricevere qualsiasi tipo di protezione sociale. E una volta che queste disuguaglianze si intrecciano ad altre legate a etnia, casta, lingua, posizione geografica, si ottiene davvero una combinazione molto tossica.
Come potrebbe cambiare la percezione dell'economia in una prospettiva più egualitaria ed equa?
Ci viene sempre detto che l'economia è più importante delle persone, dei diritti umani o del pianeta. Quello di cui abbiamo bisogno è di stabilire un'economia che funzioni per la società e per le persone. In questo modo cambierebbe immediatamente il modo in cui condurremmo la politica economica. Ci orienteremmo a fornire bisogni di base attraverso il lavoro di cura, applicando il principio delle cinque ‘R’. Inoltre, è fondamentale che le capacità di tutte le persone possano essere migliorate attraverso un accesso più equo e inclusivo all'istruzione e al mondo del lavoro, così come alla salute e alle cure sanitarie. Dovremmo cominciare a pensare all'economia come a uno strumento per raggiungere la società che vogliamo, e non come a un dio da compiacere.