Politiche

Donne, cervelli e matematica: un dibattito annoso, tra spiegazioni biologiche e sociali, neuroscienze e stereotipi. Tutto basato sulla domanda: i maschi sono più bravi in matematica? Prima di dare una risposta, chiediamoci: come vengono fatte le domande?

La matematica
metro dell'eguaglianza

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La sottorappresentazione delle donne nelle discipline scientifiche è stata per lungo tempo giustificata dal complesso rapporto che le donne avrebbero con lo studio della matematica. È sufficiente ricordare la famosa e criticata affermazione del Rettore di Harvard, Lawrence Summers, pronunciata nel 2005, a proposito delle differenze innate tra uomini e donne nelle abilità matematiche – e il dibattito che ne è seguito – per comprendere quanto questo tema abbia radici profonde (Etzkowitz e Gupta, 2006).

Le spiegazioni delle diversità nelle abilità matematiche si sono basate, nel corso del tempo, su aspetti di tipo biologico: il gap di genere (e la presunta inferiorità delle donne) si credeva fosse dovuto alla presenza nelle donne dei due cromosomi X che avrebbero limitato la varianza della loro intelligenza rispetto agli uomini; oppure, al maggior grado di lateralizzazione del cervello "maschile" rispetto a quello "femminile"; infine, alla differenza del volume del cervello maschile rispetto a quello femminile, che anticamente è stato causa di un falso pregiudizio, secondo cui la superiorità in volume del cervello maschile comporta un qualche vantaggio per gli uomini in termini di prestazioni cognitive (Schiebinger, 1999). Ancora oggi, si enumerano una serie di ricerche che analizzano le differenze cognitive tra uomini e donne come determinate biologicamente. Esse guardano alle differenze sia in termini di abilità matematiche e spaziali (Halpern, 2000; Gallengher, Kaufman, 2005; Spelke, 2005) sia di scrittura e di lettura (Levy, Astur, Frick, 2005).

Nel libro Myths of gender la biologa Anne Fausto Sterling (1992) critica le spiegazioni di tipo biologico per spiegare il gender gap nelle performance matematiche e rileva che negli studi in cui emerge un’effettiva diversità di abilità, si tratta sempre di una differenza minima e tale divario è da spiegarsi in termini sociali. Infatti, in contrasto con l’approccio biologico, si è sviluppato l’approccio costruttivista che ha dato vita ad una serie di studi che mettono l’accento su spiegazioni di tipo psicologico e/o socio-culturale (Halpern and Tan, 2001). Come sottolinea la neuroscienziata Rumiati (2010, p.111): "Anche se storicamente è stato documentato un vantaggio maschile nel campo della matematica, e in particolare del problem solving, negli ultimi anni tale divario si è ridotto notevolmente fino a scomparire nelle società più egualitarie. Le prestazioni matematiche delle donne possono essere danneggiate da stereotipi negativi. Quindi, la stessa affermazione di Summers, se anche è stata pronunciata per stimolare provocatoriamente la ricerca in questo campo, in realtà può aver acuito il gap sessuale nella scienza, attraverso l’attivazione della paura dello stereotipo". In effetti, è noto come l’azione di stereotipi di natura positiva o negativa possa influenzare in un senso o nell’altro la performance di un individuo (la cosiddetta minaccia dello stereotipo, Steele, Aronson, 1995) e quanto sia importante il ruolo giocato dalla cultura in tali questioni (si veda per esempio, lo studio pubblicato su Science di Guiso, Monte, Sapienza, Zingales, 2008).

Un aspetto da considerare quando si guarda alla misurazione delle performance matematiche è il modo in cui vengono misurati i risultati. Infatti, Schiebinger (1999) sostiene che la risposta alla domanda "Gli uomini sono più bravi in matematica delle donne?" dipende principalmente dal metro scelto per decidere. In effetti, l’importanza sta più nell’analizzare il modo in cui i test di matematica sono costruiti che nell’eventuale differenza che emerge dai risultati. Diversi studi americani (Hyde, Fennema, Lamon, 1990; Rosser, 1989) hanno analizzato meticolosamente il tipo di domande poste dai Standardized Test ed hanno mostrato come essi siano gender biased. Secondo Schiebinger (1999), l’altra domanda che bisogna porsi è che tipo di abilità, capacità, conoscenze siano importanti per la creatività scientifica, dato che i test standardizzati, al di là delle distorsioni, richiedono un certo tipo di capacità che non è detto siano quelle più adeguate a formare un buon scienziato e un buon cittadino.

Il dibattito su donne e matematica appare potenzialmente rischioso perché sembra ribadire e perpetuare differenze costruite socialmente, ma giustificate attraverso argomentazioni scientifiche non sempre fondate. Infatti, sostenere una diversità nelle abilità cognitive tra ragazze e ragazzi, giustificate con argomentazioni di tipo biologico, sottende l’idea che le donne e gli uomini abbiano per natura cervelli diversi. Tuttavia, la ricerca scientifica non offre per il momento risposte ampie e soddisfacenti a questo interrogativo, cioè se sia presente e verificabile una differenza tra il cervello maschile e quello femminile. Inoltre, come sostiene il neuro scienziato Steven Rose (2005) è noto che gli ormoni sessuali non sono gli unici che influiscono sui processi cerebrali durante i nove mesi di gestazione; ci sono complesse interazioni ormonali, prodotte anche in altre regioni del corpo,  che non rendono possibile interpretare le differenze medie tra ragazzi e ragazze come se fossero causate da differenze sessuali genetiche e cromosomiche. Quello che viene spesso ignorato è che nel grembo materno i cervelli si sviluppano in maniera diversa da individuo ad individuo, mentre quello che generalmente si tende a enfatizzare è la differenza tra gruppi e non quella intra-gruppi, che tiene conto appunto della varianza individuale.  

In definitiva, le spiegazioni biologiche utilizzate per spiegare eventuali differenze tra cervelli maschili e femminili vengono considerate riduzioniste perché semplificano interazioni complesse per riportarle ad un singolo evento, perdendo di vista invece la complessità dei processi di sviluppo che caratterizzano l’individuo. Gli ultimi sviluppi della scienza ci suggeriscono che: "il complessivo processo dell’ontogenesi non è semplicemente una battaglia tra natura e cultura, ma è un intreccio dinamico di processi che si svolgono nell’ambito di un sistema formato indissolubilmente dall’organismo e dal suo ambiente" (Oyama, 1993, citato da Rogers, 1999, p.32).

Alcuni studiosi (Fine, 2008, 2010; Rose, Rose, 2000) sottolineano come negli ultimi anni ci sia stato un ritorno al determinismo biologico e all’enfasi posta sulle differenze tra cervelli maschili e femminili, combattuto già dalle femministe liberali e non solo negli anni ’70. Negli ultimi anni, i libri Baron Cohen (2003) e di Brizendine (2006) pare che segnino un ritorno verso quel tipo di determinismo biologico. Il dato più allarmante di questa tendenza riguarda il fatto che spesso sono proprio le donne a rimarcare e ad enfatizzare differenze biologiche immutabili sostenendo e perpetuando indirettamente l’asimmetria di genere presente nella società. Gli psicologi Jost e Hunyady (2002) sostengono che le persone che si trovano in posizione subalterna hanno una rimarchevole capacità di razionalizzare il loro status di dominati, internalizzando stereotipi e legittimando le ineguaglianze di cui loro stessi sono le prime vittime. Questa idea è in linea con il concetto di violenza simbolica teorizzato da Bourdieu (1998), secondo cui il dominato aderisce a schemi di pensiero che sono il prodotto dell’incorporazione del dominio e che ribadiscono quella violenza simbolica che il dominato stesso subisce e di cui è complice. Queste teorie spiegherebbero quindi l’appeal che ha oggi il neuro sessismo sulle donne.  Nel 2008 su Neuroethics Cordelia Fine pubblica un articolo sul problema del neurosessismo, sostenendo che i libri di Brizendine (2003) e Baron Cohen (2006) mancherebbero del rigore scientifico ed epistemologico richiesto ad altri campi e servirebbero esclusivamente a ribadire l’attuale status quo in cui le donne si trovano in posizione socialmente non paritaria rispetto agli uomini. Gli effetti etici dello sviluppo delle neuroscienze sono materia della cosiddetta neuroetica. Ma davvero è necessaria la ricerca sulle differenze cognitive tra gruppi di individui? Ceci e Williams (2009) su Nature sostengono che la verità scientifica deve essere perseguita e che non è tollerabile per la scienza censurare delle domande di ricerca. Al contrario, Rose (2009) sostiene che, non soltanto ricerche di questo tipo non sarebbero possibili in società né razziste, né sessiste, ma sarebbero addirittura insignificanti. Si tratterebbe di ideologia mascherata come scienza.

 

Bibliografia

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Brizendine L., (2006), The Female Brain, Broadway.

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