Dati

Primo atto: la crisi che si vede di più sui maschi ma colpisce di più le donne. Secondo: le politiche anticrisi che penalizzano le lavoratrici: in tempi di magra, il lavoro da salvare è quello del maschio capofamiglia. Terzo: i tagli e il caos dei servizi. Sempre a misura di donna

La tragedia in tre atti
delle ateniesi

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Ciò che succede - o ciò che si pensa stia accadendo - in Grecia è di fondamentale importanza per le decisioni che si prenderanno sul futuro dell’euro, sulla governance europea e sulla stabilità del sistema monetario mondiale, in questo autunno caldo del 2011. Ma ciò che si legge sulla Grecia - anche a livello interno - è mediato da ciò che ogni commentatore vorrebbe vedere applicato come ricetta per uscire dalla crisi o come contributo ad una discussione sulla natura della crisi stessa. Di conseguenza, molte analisi sulla Grecia spesso riflettono stereotipi, idee preconcette, o addirittura velleitarismi.

In tema di stereotipi del passato, il modello Male Breadwinner, ossia quello dell’uomo come unico percettore di reddito all’interno della famiglia, è certamente il più gettonato.

Poca attenzione ai fondamenti microeconomici del disastro

La riproduzione di nuovi miti sulla crisi greca e il dispiegarsi della crisi stessa sono stati facilitati dalla mancanza di discussione politica pubblica all’interno del paese. La mancanza di dibattito è una delle cause cui imputare il ritardo e il rinvio perenne di misure che sono state universalmente riconosciute come urgenti e attese da tempo: la riforma del sistema pensionistico ne è un caso emblematico, così come la lotta all’evasione fiscale. Questo problema insieme alla mancanza di una corretta analisi (e talvolta elaborazione) dei dati statistici, ha permesso al sistema politico di proseguire il suo corso tranquillamente per almeno un decennio, prima che si giungesse nel 2010 alla resa dei conti, quando non si era più in grado di pagare gli interessi sul debito pubblico. L’urgenza con cui il problema si è (necessariamente) espresso, porta a concentrarsi sulle conseguenze (e a come affrontarle), più che sui meccanismi sottostanti. La riforme attuate non sono state percepite come la soluzione ai problemi dalla società, al contrario come frutto di un’“imposizione dall’alto”. Come risultato, i sostenitori nazionali delle riforme strutturali si trovano ancora una volta arginati sul lato “impopolare” della discussione, semplicemente per essersi allineati alle forze esterne della Troika.

La riforma “preconfezionata” e la formazione del mito

Le riforme strutturali sono spesso trattate come un tutto indifferenziato, in parte “preconfezionato” da agenti esterni. E’ in questo modo che i vecchi miti ottengono la loro vendetta. In assenza di una discussione politica, di dati e di tempo per produrli, le riforme “preconfezionate” si nutrono di idee preconcette, le quali possono facilmente (ri)affermarsi. Il genere e, più in generale, il ruolo delle donne nell’economia e nella società è l’ambito per eccellenza in cui questo tipo di preconcetti e miti emergono con più forza.

Di seguito, commenteremo brevemente il mito chiave dell’equilibrio di genere - il modello del Male Breadwinner. La convinzione implicita ed incontrastata di questo mito è quella di influenzare la formazione politica e di dettare scelte affrettate.

L’argomento chiave (sostenuto ma quasi mai dichiarato espressamente) è che l’equilibrio di genere è, in definitiva, una scelta per quando i tempi sono buoni. Durante una crisi, quando la resa dei conti incombe, è più importante proteggere i capi famiglia. Quindi, la crisi segna il ritorno trionfale - dopo un decennio o giù di lì di offuscamento - del “capofamiglia” come soggetto principale di protezione e principale beneficiario della politica.

I “veri” lavoratori sono gli uomini. L’occupazione femminile è ausiliaria – un bene quando il capofamiglia ha già lavoro. Al lavoro delle donne, perciò si può rinunciare quando quello del capofamiglia maschio è minacciato. L’equilibrio tra i sessi è visto come una sorta di “bene di lusso”. Questa visione è sostenuta da una serie di considerazioni:

  • Il mercato del lavoro è come il gioco delle sedie musicali: quando una donna (o un anziano/ migrante) ottiene un lavoro, qualcun altro lo perde (quasi mai lei). A questa falsa credenza la teoria economica ha tentato di dare risposta dal 1860 (da Nassau Senior tra gli altri), ma ogni tentativo di critica sta morendo lentamente.

  • Durante le passate recessioni i settori a prevalenza maschile hanno visto perdere più posti di lavoro rispetto a quelli a maggiore presenza femminile. I meccanismi di risposta per il settore industriale sono stati de-industrializzazione e migrazione (per lo più di uomini), mentre i servizi sono stati meno colpiti (per lo più donne). Le donne in passato sono state protette (soprattutto in Grecia) anche grazie al sostegno del settore pubblico (dove è impiegata circa una donna su quattro).

  • La disoccupazione maschile sta aumentando molto velocemente, ma ciò è spiegato dal fatto che all’indomani della crisi i tassi di disoccupazione per gli uomini erano molto più bassi rispetto a quelli femminili. I tassi di disoccupazione dal 2007 sono aumentati sia per gli uomini che per le donne dello stesso ammontare (circa 6 punti percentuali). Questo si traduce in una maggiore velocità di cambiamento per gli uomini a causa dei tassi di disoccupazione più bassi prima dell’inizio della recessione. Tuttavia, l’osservazione che questa crisi stia colpendo i capifamiglia sta diventando quasi una verità lapalissiana.

Così, a volte di nascosto, a volte in maniera affrettata, le proposte per proteggere il capofamiglia maschio (a spese delle donne) ancora una volta diventano un obiettivo politico legittimo. Alcune lezioni greche a partire dall’inizio della crisi:

  • La riforma delle pensioni approvata nel 2010, sbandierata come il provvedimento che (finalmente) innalzava l'età pensionabile per le donne, in raltà ha finito per ridurla per le lavoratrici madri prossime alla pensione.

  • Di fronte alla necessità di ridurre il numero dei dipendenti pubblici nell’autunno del 2011, quelli con diritti pensionistici acquisiti (cioè le donne in misura di gran lunga maggiore) saranno inseriti in un elenco di riserva. Ai “riservisti” sarà pagato il 60% dello stipendio e saranno esonerati dal lavoro, una misura non diversa da un regime di prepensionamento.

  • Le prestazioni in natura (in kind) sono state pesantemente ridimensionate. I servizi sociali (e in particolare i servizi di cura) erano incapaci di soddisfare la domanda già prima della crisi; in tal modo si trasferisce di nuovo l’onere del lavoro di cura familiare sulle donne.

Nel frattempo le pressioni nella vita quotidiana stanno crescendo. Visto che le misure strutturali sono in ritardo o non attuate, le esigenze di cassa del governo sono soddisfatte attraverso inasprimenti fiscali. I bilanci familiari devono essere tagliati, e le donne hanno questo compito.

Infine, le proteste contro le politiche di austerity hanno fatto emergere un nuovo tipo di vittima: la paralisi dei servizi di interesse generale pregiudica gli individui più poveri, che non hanno alternative. Ad esempio, le interruzioni ripetute del trasporto pubblico influenzano coloro che non hanno auto o chi lavora a orario ridotto (donne, giovani, immigrati).

In questo modo, mentre la crisi colpisce probabilmente le donne più degli uomini, in maniera opposta viene percepito il problema da affrontare. Più diventa difficile la situazione macroeconomica, più il mito si rafforza. E, ahimè, più forte è la legittimazione data alle politiche che minacciano l’equilibrio di genere.

(traduzione di Sara Picchi)

In allegato, la versione integrale e in inglese dell'articolo