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L’islamofobia è una forma di discriminazione che colpisce le donne musulmane in modo sproporzionato rispetto agli uomini. Il nuovo rapporto dell'Enar, il network europeo contro il razzismo

L'islamofobia colpisce
soprattutto le donne

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Foto: Flickr/rana ossama

Le donne musulmane in Europa soffrono delle stesse diseguaglianze di cui soffrono tutte le donne nel mondo del lavoro, e come oggetto di violenza fisica e verbale, ma ulteriori fattori, quali la percezione di religione ed etnia, aggravano queste disparità. Con un tasso di ostilità verso i musulmani presenti nel nostro paese pari al 69%[1] e con un indice di uguaglianza uomo-donna del 41.1%[2], l’Italia è un contesto che non fa eccezione.

Il rapporto del network europeo contro il razzismo (Enar) “Donne dimenticate: l’impatto dell’islamofobia sulle donne musulmane in Italia[3], pubblicato a maggio 2016, ha esaminato sondaggi e studi esistenti e sopperito alla quasi totale mancanza di questi con interviste e focus group.

Lavoro

Tra i paesi Ue con la più bassa parità di genere, l’Italia si classifica in modo insoddisfacente anche su scala globale. Nel 2015, il Global Gender Gap Index[4] posizionò l’Italia al 45° posto su 145 paesi. A frenare il paese sono soprattutto una bassa partecipazione lavorativa femminile e una robusta disparità salariale. Queste condizioni peggiorano quando le donne hanno partner e figli. Le donne musulmane in Italia subiscono, in quanto donne, questi stessi svantaggi. Al fattore, penalizzante, di genere vanno a sommarsi però, i fattori di etnia, nazionalità, e religione – causando quindi una doppia o tripla penalizzazione.

In mancanza di dati disaggregati per religione, etnia e genere, l’unico modo per cercare di capire come si collocano le donne musulmane nel mercato del lavoro italiano è l’esamina dei dati relativi alle donne straniere. Dati Istat relativi al 2014[5] mostrano che i dati più bassi sulla partecipazione al mercato del lavoro si riscontrano tra le donne provenienti da paesi in cui la religione dominante è quella musulmana. Le donne di cittadinanza pachistana in Italia registrano un tasso occupazionale del 2.2%, seguite dall’ 8,9% delle egiziane, 10% delle bangladesi, il 16,4% delle tunisine e il 21,4% delle marocchine. Il tasso di inattività (non occupati e che non cercano occupazione) segue un andamento simile. Le donne con passaporto pachistano, egiziano e bangladese registrano anche le percentuali più basse nel settore dell’imprenditorialità.[6] Per spiegare questi dati, che non includono le cittadine italiane di fede musulmana, bisogna tenere in considerazione diversi fattori. La bassa partecipazione lavorativa è dovuta, infatti, a un complesso insieme di svantaggi e discriminazioni multiple, con chiare differenze dovute a percorsi di vita diversi.

Un’osservazione tratta da un rapporto dell’Istituto Ricerche Economiche e Sociali (IRES) sul progetto Leader[7] offre una panoramica di questa complessità: “l’immigrato che avverte maggiormente il contrasto tra le proprie competenze/capacità e il lavoro effettivamente svolto, è più frequentemente di sesso femminile e proviene dal continente africano, soprattutto dai paesi del Mediterraneo, nella fascia d’età d’ingresso nel mercato del lavoro, risiede in Italia da meno di cinque anni, ed è soggiornante irregolarmente o con un permesso inferiore a un anno.”

In Italia, le donne musulmane di recente immigrazione condividono generalmente le stesse difficoltà di tutti gli immigrati: una carente conoscenza della lingua italiana, il mancato riconoscimento di qualifiche rilasciate da Paesi esteri, l’assenza di contatti e la scarsa familiarità con le istituzioni, ma soprattutto le difficoltà di doversi inserire in un mercato del lavoro che relega i lavoratori stranieri nei gradini più bassi della scala occupazionale, a prescindere da dai titoli di studio posseduti.

Tutto questo ovviamente non riguarda le decine di migliaia di donne musulmane nate e cresciuta in Italia. In questo caso, la discriminazione vera e propria, dovuta al velo o a un nome di origine araba, ha un peso maggiore. Si tratta di discriminazioni talvolta difficili da scoprire - perché il datore di lavoro le nasconde - e, anche se manifeste - “ti assumo se ti togli il velo”-, sono difficili da dimostrare in tribunale a causa della mancanza di prove scritte.

Il velo costituisce un serio ostacolo nella fase di accesso al lavoro, soprattutto se per una posizione richiede contatto con il pubblico. Eppure, la “reazione negativa dei clienti” con la quale si giustificano alcuni lavoratori di lavoro è talvolta una scusa. Rifiuti e richieste di togliere il velo si registrano anche per lavori, quali lavapiatti o addetta pulizie, in cui il contatto con i clienti non è previsto.

La discriminazione, tuttavia, è raramente causata da un unico motivo. Nella maggior parte dei casi si tratta di una discriminazione dovuta a una molteplicità di fattori quali genere, religione, etnia, classe sociale, nazionalità, e numero di anni di residenza nel paese.

“A esporre la donna straniera musulmana a forme di discriminazione e razzismo, non è la religione di per sé, non è la condizione di donna di per sé, né quella di straniera e immigrata di per sé,” spiega Ginevra Demaio del Centro Studi e Ricerche Idos, “ma il fatto di riassumere insieme, nel proprio corpo, comportamento, abbigliamento, stile di vita, ruolo in famiglia e fuori, tutte queste condizioni”.

Crimini d’odio

Le interviste effettuate nel quadro del rapporto Enar hanno rivelato che gli episodi di intolleranza verso le donne musulmane accadono con una frequenza molto alta. Le donne musulmane consultate riferiscono di essere vittima, in media, di almeno un episodio di razzismo a settimana. Nella maggior parte dei casi si tratta di insulti nei mezzi di trasporto o sguardi di disprezzo e astio. Nei casi peggiori si tratta di tentativi di strappare il velo dalla testa e atti vandalici verso edifici di associazioni o negozi gestiti da musulmani.

Nonostante sia evidente che questi episodi abbiano un impatto negativo sulla vita delle donne musulmane esposte a questa violenza, a causa della totale mancanza di dati sulle matrici dei crimini di odio, è molto difficile, se non impossibile, capire la reale di questo fenomeno.[8]

A tutto questo si aggiunge il mancato contributo di organizzazioni della società civile nel raccogliere dati su episodi di natura anti-musulmana. Unica eccezione è il Mai+ Monitoraggio Anti-Islamofobia. Avviato alla fine del 2015, l'associazione raccoglie segnalazioni dei cittadini con l’obiettivo di offrire supporto legale e psicologico alle vittime di islamofobia e di produrre report annuali.

Uno sguardo all’Europa

Nel Regno Unito, durante il colloquio di lavoro al 12,5% di donne pachistane viene chiesto se hanno intenzione di sposarsi e avere figli, mentre solo al 3,3% di donne bianche viene rivolta la stessa domanda. In Germania, il 18% delle aziende seleziona per un colloquio di lavoro candidati dal nome tedesco, mentre solo il 13% seleziona candidati dal nome turco. Solo il 3% delle aziende, invece, ha invitato per un colloquio di lavoro le candidate donne che avevano sul curriculum una foto in cui indossavano il velo. In Belgio, il 44% dei datori di lavoro è d’accordo con l’affermazione che il velo possa influenzare negativamente il processo di selezione dei candidati.

Nei Paesi Bassi, oltre il 90% delle vittime di islamofobia segnalati al Meld Islamofobie nel 2015 erano donne, in Francia l’81,5% nel 2014 - segnalazioni al Collettivo contro l’islamofobia - molte delle quali indossavano dei simboli religiosi visibili. In Germania, un sondaggio ha rivelato che il 59% delle donne musulmane intervistate sono state insultate e hanno subito abusi verbali razzisti.[9]

Di cosa c’è bisogno?

Le raccomandazioni sono chiare: il primo passo è riconoscere l’islamofobia come una forma di discriminazione specifica che colpisce le donne musulmane in modo sproporzionato rispetto agli uomini musulmani. Lo svolgimento di indagini su questo fenomeno, inoltre, farebbe emergere dati chiari per sollecitare la politica e l’associazionismo ad agire. Infine, una maggiore solidarietà, da parte delle realtà femministe, verso le donne musulmane contribuirebbe a far capire che le discriminazioni di genere e di religione sono strettamente correlate e hanno effetti negativi, ancora una volta, sulla vita delle donne.

Note


[1]Pew Research Center, Spring 2016 Global Attitudes Survey.

[2] Eige, Gender Equality Index 2015. Measuring gender equality in the European Union 2005-2012. L’indice di uguaglianza è passato dal 34.6% del 2005, al 39.6% del 2010, fino ad arrivare al 41.1% del 2012

[3] Enar, Forgotten Women: The impact of Islamophobia on Muslim women in Italy, 2016. La scheda informativa è disponibile qui in lingua italiana.

[4] World Economic Forum, The Global Gender Gap Report 2015.

[5] Elaborazioni Staff SSRMdL di Italia Lavoro su microdati RCFL - ISTAT tratti da 2014, IV Rapporto annuale: Gli immigrati nel mondo del lavoro in Italia,

[6] Unioncamere. 7 aprile 2015. Comunicato stampa. ‘Immigrati: 335mila imprese nel 2014’.

[7] Ires, Discriminazioni e luoghi di lavoro: una survey sulle valutazioni e le percezioni degli immigrati. 2007

[8] I dati non sono generalmente resi pubblici dal Ministero dell’Interno e le forze dell’ordine. L’etnia e la religione della vittima sono generalmente registrate nei rapporti delle forze di polizia. Quando un crimine viene registrato come crimine di odio, l’aggravante viene inserita nel rapporto, ma non è inserita tra i criteri di classificazione del databese, rendendo è impossibile disaggregare dati sugli episodi di violenza anti-musulmana.

[9] I dati sono stati tratti da Enar, Forgotten Women: The impact of Islamophobia on Muslim women, 2016.