Politiche

Alla vigilia delle elezioni europee, ci spingiamo alle radici dell'astensionismo femminile. Un fenomeno che in Italia riguarda principalmente le donne in condizioni di marginalità, che vivono al Sud, con bassi livelli di istruzione. E che ora le più giovani sembrano voler sovvertire

Donne che
non votano

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Astensionismo femminile
Credits Unsplash/Larm Rmah

In anni di crescita impetuosa dell'astensionismo, focalizzare l'attenzione sul dato realtivo alle donne è importante per diverse ragioni. Su tutte, quella di monitorare anche dal punto di osservazione della politica (anzi, dell'azione di partecipazione politica convenzionale per eccellenza) l'evoluzione dei divari di genere. 

Tuttavia, l'esercizio può risultare fuorviante o comunque più complesso e articolato di quanto si possa immaginare. A ricordarcelo è la ricostruzione storica del fenomeno.

A differenza di altri stati europei, il diritto di voto per le donne in Italia è arrivato tardi nel corso del Novecento. Ciononostante, la mobilitazione elettorale femminile è stata massiccia fin dai primi anni della democrazia postbellica, pur non accompagnandosi a un'adeguata valorizzazione della presenza delle donne nelle istituzioni, né a una crescita di attenzione verso la politica. 

Secondo diverse persone che hanno studiato il tema, l'assenza di gender gap in questa fase rifletteva dinamiche conformistiche più che emancipative, effetto di posizioni sociali femminili ancora subalterne che producevano percorsi di socializzazione politica eterodiretti, condizionati dall'influenza del coniuge e della Chiesa, che prescindevano in larga parte dai contenuti politici del voto stesso.[1]

In questa chiave è stato letto, ad esempio, il risultato paradossale di una maggior affluenza alle urne delle donne rispetto agli uomini nelle regioni meridionali, dove si manifestava con più forza il tradizionalismo dell'ambiente sociale, e l'azione delle subculture politiche risultava meno strutturata. 

Solo negli anni Settanta, l'ingresso massiccio nel mercato del lavoro e le mobilitazioni femminili hanno via via rafforzato tra le donne la consapevolezza dell'importanza di confrontarsi con la politica, spingendo in alto il senso di efficacia della loro azione pubblica e delle loro scelte di voto, anche se dentro una prospettiva già fortemente critica verso le pratiche tradizionali di militanza di partito, ritenute escludenti nei confronti delle donne. 

A partire dalla fine degli anni Ottanta, lo scenario politico-elettorale comincia a trasformarsi. Il divario di genere si allarga a causa di una maggiore stanchezza partecipativa da parte delle donne, legata alla fine del ciclo di mobilitazione collettiva e all'affievolirsi di quel sentimento religioso che aveva pesato negli orientamenti politici precedenti. 

La fuga dai grandi partiti di massa si traduce dapprima in un'apertura verso formazioni nuove, trasversali alle divisioni ideologiche, poi in astensionismo. 

Bisogna però aspettare il crollo della Prima Repubblica per vedere la disaffezione elettorale diventare protagonista. Se nel periodo 1948-1972 lo scarto medio tra le percentuali di votanti uomini e donne era prossimo allo zero o negativo, nel periodo 1976-1992 passa a circa due punti percentuali, per arrivare con una progressione crescente a quattro-cinque punti percentuali tra il 1994 e il 2022.

L'arretramento della partecipazione femminile si è intensificato a partire dal nuovo ciclo di instabilità elettorale iniziato nel 2013 e, anche se non ha registrato un'impennata, nel 2022 ha fatto segnare il minimo storico (per le elezioni politiche) del 62,2% di elettrici alle urne – con valori ancora più bassi e un divario di genere più largo al Sud rispetto al resto d'Italia, e nei piccoli centri rispetto ai capoluoghi. 

Questi dati ci dicono che le donne partecipano meno dove sono o si sentono più distanti dal centro politico e non riescono ad avere accesso o a intercettare le stesse risorse politiche che sono disponibili, con più fatica rispetto al passato, per gli uomini. 

Tali difficoltà condizionano negativamente il modo in cui le donne si rapportano al potere e alimentano apatia, scoraggiamento, indifferenza. Ma a quali donne ci riferiamo? Per rispondere a questa domanda è necessario soffermarsi sulle caratteristiche socio-demografiche di chi si astiene. 

Innanzitutto, l'età. Le indagini post-elettorali ci dicono che, tra le persone giovani, le donne vanno a votare come o più degli uomini; nella fascia centrale fra i 35 e i 60 anni le differenze esistono ma sono contenute, mentre tra le persone over 60 anni il divario si allarga, sebbene questa caratteristica sia diventata progressivamente meno accentuata con l'ingresso nell'età anziana di elettrici della generazione baby boom, formatesi politicamente durante dalla stagione delle mobilitazioni. 

Una seconda dimensione da considerare è il livello di istruzione. Da un lato, sappiamo che sono le donne con basso titolo di studio a presentare il massimo ritardo rispetto agli uomini. Dall'altro, – ed è questo un dato da considerare con attenzione, se confermato nel tempo – il possesso della laurea non basta ad allineare elettori ed elettrici, in quanto aumenta sì la propensione delle donne a partecipare, ma in misura minore rispetto a quanto avviene tra gli uomini.[2] 

Solo in presenza di livelli di istruzione intermedi (diploma e formazione superiore non universitaria) le differenze di genere spariscono. Infine, va tenuto presente anche l'effetto elezione, ossia la variazione delle percentuali di votanti a seconda del tipo di competizione elettorale. 

In questo caso, non deve stupire se, allontanandosi dall'appuntamento principale delle elezioni politiche, la partecipazione diminuisca, e che ciò avvenga soprattutto per le donne, in ragione della diversa salienza del voto, della quantità e del tipo di motivazioni a cui donne e uomini fanno riferimento al momento di decidere se recarsi alle urne.

A questi profili delle persone che si astengono dal voto è possibile associare ragioni diverse per spiegare un ritardo che non si riduce, che non si assottiglia. 

Non possiamo innanzitutto prescindere dal richiamare la questione centrale della dotazione diseguale di risorse socioeconomiche, che si traduce in una persistente distanza delle donne dai luoghi delle decisioni, in una minore acquisizione di competenze civiche (ad esempio parlare o leggere testi in pubblico, presiedere a incontri) che facilitano la costruzione del senso di commitment (impegno, ndr), fondamentale per partecipare. 

Tra le risorse, non va poi dimenticata la disponibilità di tempo da dedicare alle attività partecipative. Un fattore situazionale più che strutturale, che agisce quando le transizioni familiari impattano sulla divisione di genere delle attività domestiche ed extradomestiche. 

In questo caso, lo sguardo non va posto sul semplice atto di andare a votare, i cui costi e l'impegno che comporta è di per sé minimo, ma sulla costruzione complessiva dell'identità pubblica-politica che lo sostiene e che necessita di attenzione e dedizione. 

La spiegazione della mancata partecipazione centrata sul "non posso" è evidentemente parziale, in quanto trascura la dimensione culturale, ossia il modo in cui, nelle diverse società, le donne vivono i percorsi di socializzazione politica, formano i loro atteggiamenti politici e interiorizzano o subiscono le rappresentazioni sociali circa i ruoli di genere attesi. 

Seguendo questa chiave di lettura, le donne si ritirano dal coinvolgimento politico non (solo) perché hanno una minore dotazione di risorse, ma perché "non vogliono". Alla base del mancato coinvolgimento c'è un deficit di motivazione, connesso a una più debole consapevolezza delle donne di poter incidere sul processo politico. 

La penalizzazione delle donne deriverebbe, quindi, da predisposizioni psicologiche e, in particolare, dalla sensazione di essere inefficaci. A differenza degli uomini, le donne si percepiscono meno come agen­ti politiche e, quindi, finiscono per subire la lea­der­ship maschile. 

Il processo di socializzazione differenziato rispetto al genere produce una svalutazione sistematica della dimensione politica, ponendo le donne in una condizione di squilibrio e disagio quando sono a contatto con temi politici, rispetto a cui reagiscono evitando discussioni e conflitti che implicano una presa di posizione. 

Ad alimentare questa sensazione di inadeguatezza contribuisce poi la cultura sessista espressa dalle istituzioni politiche, che si riflette ancora, com'è noto, in una scarsa presenza femminile nelle posizioni di vertice di partiti e associazioni, nel processo di elezione a cariche pubbliche, così come nell'articolazione dei programmi politici sui media.[3]

In realtà, esiste un nesso tra le due motivazioni del "non voglio" e del "non posso". Reazioni di scoraggiamento e svalutazione nei confronti della politica riflettono pratiche sociali consolidate che legittimano la divi­sio­ne sessuale dei ruoli e complicano l'acquisizione di un'identità parti­ti­ca stabile e duratura per le donne. 

A subirne gli effetti non sono però quelle donne che hanno rafforzato la loro presenza pubblica, quanto i segmenti di popolazione femminile culturalmente tradizionalisti e socialmente marginali. 

Detto in altri termini, il problema riguarda le donne per le quali la sensazione di inefficacia esterna alimentata da un sistema politico poco responsive (reattivo, in grado di rispondere, ndr) si somma a una scarsa efficacia interna, ossia alla difficoltà di comprendere il funzionamento e il significato della politica attraverso le (scarse) risorse che si hanno a disposizione. 

Se questa sovrapposizione di svantaggio strutturale e culturale è indubbiamente presente e forse prevalente, al tempo stesso non è tutto. Non si spiegherebbe, altrimenti, la persistenza dei divari di genere anche a fronte di un'elevata dotazione di capitale culturale, anche, cioè quando le donne dispongono di risorse per restare agganciate alla politica. 

Piuttosto, l'impressione è che oggi le differenze tra le donne si stiano allargando, con alcune che raggiungono e superano gli uomini nelle urne, altre che fanno fatica a stare al passo, nonostante siano attrezzate, e altre ancora che restano sempre più indietro.

Sbrogliare questa matassa non è facile, ma qualche indicazione si può ricavare guardando alle persone giovani, tra cui il divario partecipativo risulta assente o addirittura rovesciato. Da cosa dipende questa particolarità?

Un'ipotesi è che le giovani donne mostrino un più pronunciato civismo rispetto ai loro coetanei uomini, derivante dalla persistenza di una linea femminile di trasmissione intergenerazionale degli orientamenti politici. 

Una sorta di eredità delle mobilitazioni del passato, rinforzatasi nella stagione attuale che vede la crescita di attenzione e dell'attivismo attorno a temi legati al genere, come il contrasto agli stereotipi o alle violenze contro le donne. 

Per essere più solida, quest’ipotesi andrebbe completata includendo anche il comportamento maschile. Una lettura possibile, da testare con studi più approfonditi, è quella del backlash effect, ossia dell'esistenza di una contro-reazione degli uomini alla spinta emancipazionista femminile. 

Quest'effetto, già richiamato per spiegare i fenomeni contemporanei di polarizzazione politica e culturale soprattutto nel contesto statunitense, potrebbe essersi manifestato anche tra le persone giovani, soprattutto quelle formatesi all’interno di ambienti mediatici fortemente segregati, portandole ad abbracciare una visione conflittuale della politica e a propendere per forme di protesta che confluiscono nel voto per partiti antisistema, ma anche nell'astensionismo. 

La tesi di una diversa costruzione di genere dello spazio politico-ideologico è indubbiamente suggestiva, ma non deve farci trascurare quella che, in ultima istanza, è la ragione di fondo che orienta le scelte elettorali, ossia la presenza di almeno un'opzione partitica tra l'offerta esistente su cui proiettare le proprie aspettative di realizzazione delle policy ritenute prioritarie. 

Alla luce di quanto mostrato finora, tutto questo è meno garantito alle donne e difficilmente può essere eluso come problema quando si affronta il nodo dell'astensionismo.

Note

[1] Su questo tema si rimanda a D. Tuorto, L. Sartori, Quale genere di astensionismo? La partecipazione elettorale delle donne in Italia nel periodo 1948-2018, "SocietàMutamentoPolitica", 11, 2020, pp. 11-22.

[2] Un recente studio ha messo in luce come la componente di laureate fra le astenute sia in crescita costante dal 2001. Per approfondimenti si rimanda a: P. Pansardi, A. Stucchi, Astensione e partecipazione femminile in Italia, in "Etica pubblica", 2, 2023, pp. 75-93.

[3] Un confronto dettagliato tra le diverse cause del gender participative gap (divario di genere nella partecipazione, ndr) è esposto nell'articolo di L. Sartori, D. Tuorto, R. Ghigi, The social roots of the gender gap in political participation: The role of situational and cultural constraints in Italy, "Social Politics: International Studies in Gender, State & Society", 24(3), 2017, pp. 221-247.