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Le atlete guadagnano in media il 30% in meno dei colleghi, in un paese dove le sportive sono ancora relegate per legge al dilettantismo. Ne parliamo con Gioia Virgilio e Silvia Lolli, curatrici del volume Donne e sport uscito per I libri di Emil a fine 2018

Non è un paese
per sportive

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Foto: Unsplash/ Wynand van Poortvliet

Donne e sport, l'impressione è che, lentamente, se ne inizi a parlare, ma che lo si faccia ancora troppo poco a fronte di tutte le parole spese per riportare record e vittorie maschili. Eppure atlete e campionesse si distinguono sempre più e sempre meglio a livello nazionale e internazionale. Al tema, l’Associazione di donne “Orlando” di Bologna ha di recente dedicato un ciclo di incontri da cui sono emersi dati e interventi raccolti nel libro Donne e sport (I libri di Emil, 2018) curato da Gioia Virgilio e Silvia Lolli – la prima economista sanitaria, la seconda insegnante di educazione fisica e sociologa dello sport, entrambe con una lunga esperienza di sportive alle spalle. Le abbiamo intervistate

Su 4,5 milioni di persone che praticano sport, il 26,9% sono donne, dicono i numeri del Comitato olimpico nazionale italiano che riportate nel volume. Gli sport in cui le donne sono più presenti sono la pallavolo (con il 25% dei tesserati), il tennis (7,2%) e la ginnastica (9%). E se pensiamo anche solo al grande business del pallone, dove le atlete guadagnano considerevolmente meno dei colleghi, quello dello sport si manifesta davvero come un settore marcatamente asimmetrico. A quali modelli e pregiudizi leghereste questo dato?

Le ragioni di queste asimmetrie vanno rintracciate nella storia e sono molteplici. L’ideologia che definisce l’uomo forte, competitivo, attivo, e la donna debole, remissiva e passiva resiste dal Novecento ancora oggi. Pensiamo anche solo al fatto che la ginnastica non era concepita tra le discipline sportive competitive e che alle donne non era permesso prendere parte alle competizioni sportive. Solo nel 1916 le donne in Italia saranno ammesse alle gare di “ciclo turistico” e solo nel 1936 potranno accedere alle competizioni olimpiche. Non stupisce quindi che oggi i dati del Comitato olimpico nazionale italiano e delle federazioni sportive nazionali evidenzino forti differenze nella pratica dello sport, nella distribuzione a livello dirigenziale e nel numero assoluto di atlete tesserate. Se poi si considera come i media raccontano le stesse atlete, si può affermare che il connubio tra sport delle donne e stereotipi sessisti sia ancora fortissimo.

Come trova posto, secondo voi, questo stereotipo nel dibattito pubblico?

Basta leggere i giornali sportivi, e soprattutto la stampa online, pieni di fotogallery, gossip, video che forniscono un’immagine della donna nello sport riduttiva e restrittiva: si guarda solo alla bellezza, al look, ponendo volutamente in secondo piano i meriti professionali e i risultati sportivi. Fra gli stereotipi/pregiudizi più comuni: le donne che praticano sport sono considerate troppo mascoline e poco femminili, sono inferiori e meno capaci degli uomini, sono artefici di uno spettacolo sportivo poco divertente e non degno di grande interesse. Alcuni sport sono violenti (rugby, boxe) e non sono adatti alle atlete, le donne non sono in grado di guidare come pilote in Formula 1 o nelle gare di motorsport. Ne deriva, per le squadre femminili, l'essere relegate a una scarsa visibilità proprio rispetto a sport ancora predominati dal maschile, come il basket e il calcio: non altrettanti sono gli spettatori e i tifosi, né la professionalità viene riconosciuta alla pari, e così si riduce lo spazio dedicato alle atlete dalla stampa nonostante le vittorie.

E per quanto riguarda le carriere?

Esiste una sproporzione tra uomini e donne negli ambienti federali e societari e negli staff tecnici, ed esistono disuguaglianze sul piano legislativo statale: la legge 91 sul professionismo sportivo del 1981 impone alle sportive il “dilettantismo” senza il riconoscimento di diritti di base relativi al lavoro subordinato (assenza di tutela sanitaria, nessuna garanzia a fini pensionistici, non tutela per rischi assicurativi). L’attività delle donne nello sport è regolamentata da accordi privati con le società. Purtroppo, l’unica soluzione per le atlete per garantirsi un futuro alla fine della carriera agonistica è accedere ai corpi militari statali che assicurano uno stipendio, il diritto al trattamento di fine rapporto e alla pensione. Le sportive guadagnano in media il 30% in meno dei colleghi. 

Il libro che avete curato è articolato in una serie di interventi e discussioni e ci ricorda che per comprendere una questione bisogna sviscerarne i nodi nello spazio e nel tempo. Nelle pagine provate non solo a ricostruire una storia della presenza delle donne nello sport “in assenza di archivi” ma anche a tessere il più possibile una rete di esperienze e saperi coinvolgendo sportive, insegnanti, ricercatrici ed esperte. Che significato ha avuto tutto questo a livello più esteso? 

Abbiamo cercato di evitare la retorica della positività dello sport, come qualcosa di apolitico che “fa del bene sempre e comunque”, ma anche di ridurci a un’operazione neutra di ricerca. Al contrario, come suggerisce il titolo, abbiamo considerato un’ottica di genere, cioè analizzato le differenze, i pregiudizi, gli ostacoli, le asimmetrie e le discriminazioni nelle pratiche sportive, le rappresentazioni mediatiche sessiste. Il lavoro si è accresciuto via via durante il percorso e in questo è consistito per noi il divertimento, la sorpresa e l’arricchimento reciproco, cosa che speriamo si avverta nella lettura. La rete di contatti creatasi grazie agli incontri dal vivo – che hanno coinvolto professioniste, atlete e donne interessate allo sport – ci ha permesso di conoscere donne con punti di vista molto diversi su una pluralità di temi da noi scelti come dirompenti, legati al mondo dello sport, senza trattarli separatamente, ma anzi cogliendone gli intrecci: la rappresentazione mediatica delle sportive, la formazione sportiva a scuola, l’emarginazione sociale, l’apertura alle disabilità, la constatazione delle diversità culturali delle migranti. Non abbiamo parlato delle singole, delle pioniere, delle grandi figure di sportive per tentare invece di avere una visione d’insieme. Anche l'atleta Sara Simeoni, che ci ha dato lo stimolo all’avvio del progetto di riflessione, ha fatto parte di questa visione d’insieme. 

E che tipo di risposte avete trovato a livello sociale, politico, culturale?

Il pubblico ha partecipato con vivacità e i contributi emersi dagli incontri sono stati ricchi. Subito dopo la diffusione del libro abbiamo raccolto commenti favorevoli da più parti, da singole esperte e professioniste, ma anche da associazioni e istituzioni coinvolte. In molti ci hanno chiesto e si sono offerti di organizzare presentazioni del libro in sedi diverse (librerie, scuole, club, Università, Comuni). Alcuni, in particolare, hanno sottolineato l’originalità del lavoro nel metodo e nel linguaggio usati: l’idea era infatti di raccontare non con toni accademici ma utilizzando uno stile divulgativo. Particolare attenzione è stata data alla scelta delle immagini negli inviti/locandine – le foto della copertina sono state proposte dalle atlete stesse e nel retrocopertina abbiamo scritto: “le atlete che hanno dato corpo e parola alle nostre riflessioni”: è proprio così senza di loro non avremmo prodotto nulla di originale. 

Nel libro ribadite in più modi come il progetto non sarebbe nato senza la storia dell’atleta Sara Simeoni, campionessa italiana di salto in alto. Cosa possiamo imparare dalla storia di Sara? 

L'esperienza di Sara ci ha insegnato che esistono forti differenze tra donne e uomini nell’agire sportivo riguardo all’immaginario, al risultato, al talento e alla competenza. In una recente intervista Sara ha affermato che lei, come Paola Pigni e Novella Calligaris, sono state “un po’ le femministe dello sport” nel senso che hanno “conosciuto cose che oggi per fortuna sono scontate” e hanno aperto una strada. Lo sport, ci ha raccontato Sara nel primo incontro che abbiamo organizzato, le ha offerto soprattutto alcune opportunità: l’ha aiutata a vincere la timidezza, in quanto l’allenamento, gli esercizi, la forma, la gara danno sicurezza, migliorano l’attenzione al corpo. L’ascolto delle sensazioni provate e la creatività ricercata nel gesto sportivo sono infatti più importanti dell’adeguarsi a tecniche meccaniche ripetitive. La scelta di andare lontano da casa ad allenarsi l’ha abituata ad adattarsi a situazioni nuove, a risolvere problemi da sola, a resistere. Quello che ha cambiato la vita di Sara e che l’ha portata al successo sono, oltre alla sperimentazione continua di tecniche, in ascolto delle proprie sensazioni ed emozioni, e alla fiducia in se stessa, soprattutto la capacità di accettare il limite, sia quando si è trattato di superarlo sia quando si è trattato di subirlo. La sconfitta non le ha mai creato problemi: oggi che insegna educazione fisica in una scuola ed è impegnata in progetti di educazione sportiva con i bambini presso le strutture territoriali, si definisce una “campionessa che insegna a perdere”.