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Ancora una riforma che, in tema di lavoro, punta solo a una ulteriore flessibilizzazione dei contratti. Le conseguenze saranno gravi per i giovani e per le donne. Ecco perché

Renzi, il jobs act
e la precarietà infinita

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Anche Renzi, come chi lo ha preceduto, sembra ritenere che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti di lavoro, non la carenza di domanda. Perciò, nonostante nel solo 2013 si siano persi 413.000 posti di lavoro (dati Istat), il primo pezzo del tanto annunciato jobs act è una ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro, con l’allungamento della possibilità di rinnovare i contratti a termine fino a otto volte in tre anni. Ciò significa la possibilità di spezzettare un rapporto di lavoro in contratti di 4-5 mesi, salvo ricominciare da capo, con un nuovo lavoratore/lavoratrice allo scadere dei tre anni. Come ciò si concili con il promesso contratto unico a tutele crescenti rimane un mistero. Ed è difficile che questa ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro favorisca la ripresa economica, ovvero la competitività delle nostre imprese a livello nazionale. È, infatti, un forte scoraggiamento ad investire sulla forza lavoro, specie su quella in ingresso, dato che l’orizzonte temporale della “prova” si allunga a dismisura ed assume ancora più di prima un carattere neppure tanto sottilmente minaccioso, o ricattatorio, dato che rinnovi o mancati rinnovi possono avvenire a tempi cortissimi.

Nella stessa direzione va la modifica, un vero e proprio ritorno indietro, dell’apprendistato, con l’eliminazione sia dell’obbligo a garantire formazione, sia di quello ad assumere a tempo determinato almeno un venti per cento degli apprendisti prima di avviare nuovi contratti di apprendistato – una delle buone innovazioni introdotte da Fornero. La differenza tra contratti di apprendistato e contratti a termine si annulla di nuovo, pur rimanendo a livello formale (ciò che probabilmente aprirà a nuove sanzioni UE).

Se questo è il modo di investire sui giovani, di offrire loro un orizzonte di vita meno incerto dell’attuale, mi sembra che non ci siamo proprio. Perché sono loro i primi cui si applicherà questa doppia estensione della precarietà, fatta di contratti brevi senza alcuna ragionevole garanzia di stabilizzazione dopo tre anni di rinnovi (se va bene). Sono loro i primi a rischiare di entrare in una porta girevole all’infinito, che oltretutto difficilmente consentirà loro di maturare diritti a una indennità di disoccupazione decente, tra un rinnovo e l’altro. Senza che si crei un solo posto di lavoro in più e probabilmente senza fermare l’emorragia di posti di lavoro –  moltissimi dei quali stabili, a tempo indeterminato - in corso ormai da anni.

Per le donne, poi, vi saranno costi aggiuntivi. La possibilità di fare contratti brevi, rinnovabili più volte, consentirà ai datori di lavoro di ignorare del tutto legalmente la norma sul divieto di licenziamento durante il cosiddetto periodo protetto. Non occorrerà neppure più far firmare, illegalmente, dimissioni in bianco, o indagare, sempre illegalmente, sulle intenzioni procreative al momento dell’assunzione. Basterà fare loro sistematicamente contratti brevi, non rinnovandoli alla scadenza in caso di gravidanza. Con l’ulteriore conseguenza negativa che molte donne non riusciranno a maturare il diritto alla indennità di maternità piena. E faranno fatica ad iscrivere il bambino all’asilo nido, dato che non potranno dimostrare di avere un contratto di lavoro almeno annuale.

Chissà se, come ha fatto la ministra Boschi per la questione delle norme antidiscriminatorie nella legge elettorale, le ministre considereranno anche questa penalizzazione aggiuntiva per le donne di una riforma già di per sé negativa, un piccolo scotto del tutto marginale da pagare sull’altare delle riforme “epocali”.

* Articolo pubblicato in contemporanea con Lavoce.info