Assunzioni al 30 per cento e certificazione di genere, nuove frontiere per il ruolo delle consigliere di parità e alcune proposte per rendere più coerente il quadro normativo
Certificazione di genere
e consigliere di parità
In un quadro legislativo che muta e amplifica le funzioni e il ruolo delle consigliere di parità è necessario un ulteriore sforzo per tenere insieme le norme che regolano la riorganizzazione dell’istituto attraverso l'articolo 47 del decreto legislativo 77/2021 e l'articolo 4 della Legge 162/2021.
Infatti, se da un lato alla consigliera di parità (per il decreto 77) deve essere trasmesso, a pena di nullità, la relazione del personale per partecipare a gare pubbliche (così come previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza e dal Piano nazionale per gli investimenti complementari, per abbreviare Pnrr e Pnc) a opera di imprese pubbliche e private con almeno 50 dipendenti, questo obbligo non sarebbe previsto per le imprese con personale inferiore a 50 dipendenti.
Chiaro che questo crea un grave pregiudizio per la parità di genere, essendo l’ossatura economica del nostro paese basata sulle piccolissime, piccole e medie imprese. Allora la mancata previsione della obbligatorietà (pena la nullità) della trasmissione delle relazioni del personale, per le imprese con soglie più basse di 50 dipendenti sarebbero “giustificate” dal superiore interesse economico pubblico, costituito dall’esigenza di far girare l’economia, dimenticando che l’interesse pubblico economico oggi è rappresentato dal moltiplicatore di presenza femminile tra la forza lavoro, e che la parità lavorativa, si ripercuote sull’economia del paese in termini di sviluppo.
Ma le deroghe al principio di parità non terminano. Infatti, fissato il principio di parità, nell’articolo 47 del decreto 77 2021 è previsto che le imprese pubbliche e private destinatarie di fondi Pnrr e il Pnc sarebbero tenute all’assunzione del 30% di donne nel momento dell’esecuzione dei contratti. In particolare, nelle linee guida compare una deroga preoccupante, là dove è stabilito che la stazione unica appaltante possa derogare a questo vincolo del 30% per ragioni di settore produttivo.
Tale deroga penalizzerebbe il principio di parità senza alcun contraltare. Non soggiace, infatti in questa circostanza, alcun interesse pubblico economico superiore, che possa giustificare la deroga al principio fissato nella norma. Anzi, un tale comportamento avvallerebbe di fatto l’affermazione che esistono lavori maschili e lavori femminili, pregiudicando l’emancipazione delle donne e lo sviluppo, in un quadro dove invece è da tempo acclarato che l’immissione di nuova forza lavoro femminile nel mercato costituisce il volano per l’economia.
Da qui, deriva che se al decreto 77 si continuano ad apportare deroghe riguardanti la parità di genere, la stessa norma si allontanerà sempre di più dalla propria finalità e da quella finalità voluta anche dalla legge 162, mettendo a rischio i risultati sperati in tema di implemento dell’occupazione femminile, e rendendo necessario fin da subito un intervento correttivo.
L’articolo 4 della legge 162, attorno a cui ruotano molte delle aspettative riguardanti la parità lavorativa dei prossimi anni, recita: “A decorrere dal 1/gennaio/2022 è istituita la certificazione della parità di genere al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità”.
A seguire, nell'articolo è stabilito che il comitato tecnico (del quale fa parte la consigliera di parità) fornisca alle imprese il certificato di genere qualora le stesse rispettino i parametri di quella parità effettiva che oseremo definire “sostanziale”, volta a creare i presupposti per un mondo del lavoro più equo. Attraverso la certificazione di genere deriverà quindi il diritto per le aziende “virtuose” alla premialità, che si traduce in defiscalizzazione degli oneri sociali.
Dalla norma discende il chiaro intento di voler far decollare l’occupazione femminile, attraverso la garanzia: della parità salariale, delle pari opportunità di carriera, della condivisione e non solo della conciliazione tra vita e lavoro. Tutte insieme queste garanzie, nessuna esclusa, contribuiscono allo sviluppo economico del paese. La certificazione di genere in questa prospettiva costituirà la vera scommessa per far decollare le politiche della parità di genere nelle imprese, e di conseguenza nel mercato del lavoro.
Davanti a una norma che chiede ancora di essere dettagliata, soprattutto definendo meglio la griglia di valutazione delle caratteristiche per la concessione del certificato di genere da assegnare alle aziende, ogni ipotesi di deroga a questo principio non potrà che leggersi come una minaccia alla realizzazione degli effetti voluti dalla legge. Ne discende che, il raggiungimento dell’obbiettivo posto nelle due disposizioni normative - decreto 77 e legge 162 - equivale a presupporre che ci sia tra le stesse una maggiore armonizzazione e che l’eventuale deroga all’articolo 47 del decreto 77 sulle assunzioni del 30% di donne nei contratti attuativi di Pnrr e Pnc venga rivisto, perché in caso contrario si rischierebbe di tradire l’intero spirito delle norme in oggetto.
Il timore, infatti, è che un comportamento di questo tipo, potrebbe portare con sé il rischio di rilasciare certificati di parità ad aziende che pur non vendo rispettato il precetto fissato dal decreto 77 (la quota del 30% di assunzioni femminili), abbiano rispettato i parametri fissati dalla griglia voluti dalla legge 162. Certificato di parità che, in questa circostanza, non esitiamo a definire “inattendibile”, visto che verrebbe rilasciato in un contesto in cui non è stato garantito l’incremento dell’occupazione femminile.
Se tutto ciò accadesse sarebbe un autentico disastro per la parità di genere, ragion per cui le due norme che favoriscono l’occupazione femminile non possono contenere in sé queste grossolane deroghe. E allora ciò che andrebbe disposto, subito, è un ulteriore intervento normativo di raccordo tra le disposizioni in esame, facendo in modo che si possa rivedere quella deroga in sede di stazione unica appaltante: o eliminandola, o mitigandola attraverso l’inserimento della consigliera di parità tra i componenti della stazione unica appaltante, che nelle ipotesi di controlli sui contratti di assunzione (ex ar. 47 d.lgs 77/21, del 30% di donne sui contratti Pnrr o Pnc) potrà, in base alla sua competenza in materia di politiche di genere, attenuare le deroghe che hanno il sapore dell’irragionevolezza e la forza penalizzante della parità lavorativa.
Per questo, l’attenzione riservata alla certificazione di genere da parte di tutti gli attori della compagine politica e istituzionale come le Regioni e le Consigliere di parità regionali è molto alta. Tanto che in attesa che venga emanata la normativa di dettaglio (ex art. 4 L. 162/21) è in corso la programmazione di tavoli istituzionali, come sta accadendo in Emilia Romagna, e momenti di studio e indagine in collaborazione con le Università del territorio, come sta accadendo in Calabria, al fine di farsi trovare preparati al momento dell’emanazione della griglia normativa sulla parità e pronti a promuovere l’attuazione della nuova disciplina.
In un quadro come questo, l’istituto della consigliera di parità andrebbe però riorganizzato, al fine di poter svolgere adeguatamente le sue funzioni. A tal proposito bisognerebbe disciplinare l’istituto pensando a un'organizzazione territoriale che veda la consigliera di parità regionale come unica figura senza più supplenti, ma con un gruppo complementare (quelle che oggi sono le consigliere provinciali) di consigliere di parità di supporto regionale, nominate ogni 1.000.000 abitanti per ciascuna Regione, e che possano affiancare la consigliera regionale di parità nella enorme mole di lavoro.
La consigliera di parità regionale andrebbe inoltre dotata di un supporto informatico attraverso cui ricevere informazioni in tempo reale sulle vicende che riguardano le aziende in materia di parità. Così organizzato, l’istituto della consigliera di parità svolgerebbe con maggiore efficacia la sua funzione, potendo essere meglio inquadrata come soggetto terzo di garanzia della parità di genere, in un contesto normativo che delineerebbe meglio la natura giuridica ed economica del suo ruolo.
Le consigliere di parità potrebbero a questo punto essere inquadrate come soggetti terzi a cui chiedere l’intervento pubblico di controllo preventivo per i casi esaminati nel decreto 77 e nella legge 162, e anche l’intervento di controllo successivo, in termini risolutivi delle eventuali controversie in materia di parità lavorativa, come componente terzo di un collegio arbitrale che andrebbe istituito. Tutto questo farebbe della consigliera di parità un organo imprescindibile per garantire la tutela dei diritti, della parità sul lavoro e della piena occupazione femminile. E a cui, proprio in virtù di questo ruolo, andrebbe riconosciuto il giusto valore economico e sociale.