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Soddisfatte, affaticate, insoddisfatte, rassegnate: come stanno le donne che lavorano da casa? I risultati di un'indagine condotta durante il primo lockdown mettono in dubbio l'efficacia del lavoro da remoto per la conciliazione

Come stanno le donne
che lavorano da casa

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Foto: Unsplash

Il contesto “straordinario” in cui si è diffuso lo smart working in Italia non ha permesso una valutazione d’impatto sulla sua efficacia ma leggere alcune implicazioni dovute alla sperimentazione forzata di questa pratica ha permesso di riflettere sul rischio, o meno, che il lavoro da casa diventi un nuovo meccanismo di (ri)produzione delle diseguaglianze di genere.

In un articolo pubblicato nella rivista International Review of Sociology e intitolato The impacts of smart working on women. Lessons from the first lockdown in Italy abbiamo discusso i dati raccolti tramite una web survey lanciata ad aprile del 2020 durante il primo lockdown e rivolta alle donne lavoratrici.

Il profilo delle smart workers intercettate dall’indagine è caratterizzato da donne ad alta istruzione inserite in posizioni professionali a media-alta qualificazione. Lo studio è stato condotto con un approccio differenziale e ha identificato quattro profili di smart-worker. 

Il primo profilo è rappresentato dalle “soddisfatte” e si caratterizza per un lavoro percepito come appagante, con un buon livello di autonomia e che quindi viene definito come poco alienante e non intenso dal punto di vista dei carichi. Questo gruppo è composto dalle lavoratrici con un reddito più elevato, collocate nelle professioni a più alta qualificazione. Le donne soddisfatte della modalità da remoto sono anche quelle che percepiscono il loro carico di cura come più basso e che quindi hanno subito meno la sovrapposizione tra carichi di lavoro e carichi di cura. Si tratta principalmente di donne con alte competenze digitali e che in linea generale hanno continuato ad applicare in smart working le competenze già in loro possesso. 

Parliamo quindi di un gruppo di persone che avendo un lavoro ad alta qualificazione e autonomia e anche una buona capacità pregressa di usare gli strumenti digitali, riportano livelli alti di soddisfazione anche associati a una situazione familiare non particolarmente gravosa in termini di carichi di cura. Inoltre, la presenza rilevante delle donne collocate nelle professioni tecniche probabilmente sottolinea come lo smart working possa avere un impatto significativo rispetto all’autonomia che forse soprattutto per le professioni tecniche è aumentata impattando positivamente sulla soddisfazione.

Il secondo profilo è quello delle “affaticate”, rappresentato invece dalle lavoratrici che pur trovando il proprio lavoro in smart working come appagante e autonomo hanno anche risentito molto degli aspetti legati all’isolamento professionale e all’aumento dei carichi di cura e di lavoro. Il profilo è molto simile al gruppo precedente, anche in questo caso abbiamo in prevalenza donne collocate nelle professioni ad alta qualificazione, alto reddito e competenze elevate.

Il secondo cluster differisce però sia rispetto al carico di cura, che diventa più intenso e che sicuramente incide sui carichi di lavoro, sia per la rilevante presenza di educatori e insegnanti che se da un lato hanno sicuramente affrontato un peso di lavoro diverso e forse più gravoso, dall’altro hanno per esempio avuto modo di rafforzare, anche se solo in parte, le competenze digitali. Questo spiegherebbe una soddisfazione comunque elevata, anche se con un maggiore affaticamento e una maggiore difficoltà legata al lavoro solitario.

Tabella1. Livello di soddisfazione delle intervistate che lavorano da casa divise per reddito, età, carico di cura, professione e competenze

Fonte: De Vita, Maziai, Campanella, indagine condotta ad aprile 2022

Il terzo gruppo è quello delle “insoddisfatte”, dove la soddisfazione si abbassa e sono prevalenti le dimensioni legate all’aumento dei carichi di lavoro e anche all’isolamento professionale. In questo gruppo, come si vede dai dati, si abbassa il reddito, si alza invece l’età delle lavoratrici con una buona presenza anche delle lavoratrici over50, e diventa più intenso il carico di cura.

Anche in questo cluster è significativa la presenza del gruppo delle insegnanti, che forse però in questo caso ha maggiormente risentito dell’innalzamento dei carichi e della lontananza dalle relazioni sociali e dei contatti con i colleghi e le colleghe. Va notato in questo gruppo il leggero arricchimento in termini di competenze digitali acquisite durante il lockdown, che forse però ha costituito un ulteriore elemento di sovraccarico per una situazione già di per sé tesa, che ha quindi contribuito ad abbassare il livello generale di soddisfazione delle lavoratrici.

L’ultimo gruppo è quello delle lavoratrici “esecutive/rassegnate”, donne che hanno trovato il lavoro da remoto poco appagante e autonomo ma anche poco stressante in termini di carichi e relazioni. In questo gruppo è interessante segnalare un abbassamento del reddito e dell’età, una incidenza significativa delle professioni tecniche con una sostanziale invarianza rispetto alle competenze digitali. Si tratta quindi di donne che, anche in associazione con un carico di cura giudicato elevato, hanno accettato il lavoro da remoto non individuandone però né elementi di reale miglioramento della propria condizione né un sensibile peggioramento.

Forse in questo caso si tratta di quelle lavoratrici che seppur ad alta qualificazione non hanno ancora maturato, anche in ragione della giovane età, una posizione professionale associata a ruoli di responsabilità e autonomia oppure, al contrario, impiegate in professioni tecniche, magari routinarie, e che quindi non hanno subito sostanziali cambiamenti. 

Nel complesso, la ricerca ha contribuito a problematizzare l’idea che lo smart working, inteso prevalentemente come lavoro da remoto, sia un utile strumento per favorire la conciliazione lavorativa, soprattutto se i carichi di cura continuano a essere gestiti quasi esclusivamente dalle donne. Al netto di una situazione del tutto anomala, con i figli a casa e con la necessità di gestire non solo il proprio lavoro ma spesso anche la didattica a distanza, i dati dimostrano come il lavoro da remoto non possa essere considerato un vero e proprio dispositivo di conciliazione. Anzi, in condizione di maggiore fragilità economica la modalità di lavoro da remoto ha rappresentato una condizione di svantaggio lavorativo e ha favorito lo sviluppo di dinamiche conflittuali in famiglia.

L’indagine suggerisce di superare l’idea dello smart working come strumento a sostegno soprattutto della conciliazione, valorizzandolo invece il suo impatto trasformativo sull’organizzazione del lavoro e la gestione dei lavoratori. Da questo punto di vista, immaginare una messa a sistema di questa modalità implica la necessità di restituirgli il suo carattere originario.

Si tratta cioè di recuperarne le caratteristiche di flessibilità e destrutturazione nello spazio e nel tempo e, non ultimo, di volontarietà. Non più quindi strumento che sostituisce ad esempio congedi, permessi ecc. ma nuova modalità di lavoro che abilita a nuove competenze, prassi e saperi in una dinamica di arricchimento per lavoratori e imprese.

Riferimenti

Luisa De Vita, Tatiana Mazali, Giovanna Campanella (2022) The impacts of smart working on women. Lessons from the first lockdown in Italy, International Review of Sociology, DOI: 10.1080/03906701.2022.2064666 

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