La povertà in Italia riguarda soprattutto le donne, la cui condizione resta però invisibile ai criteri con cui vengono raccolti e analizzati i dati, che non tengono conto dei fattori culturali e sociali, e non solo economici, che contribuiscono a mantenerla. Le politiche virtuose nasceranno dal ripensamento delle misurazioni
Nel nostro paese i temi della povertà – nelle sue diverse declinazioni e accezioni di povertà relativa e povertà assoluta, marginalizzazione ed esclusione sociale – permangono come questioni di particolare rilevanza.
Come è stato già registrato lo scorso anno, il numero di persone povere appare tutt’altro che in diminuzione. Le ultime stime preliminari dell’Istat sulla povertà assoluta e sulle spese per i consumi pubblicate alla fine di marzo 2024 non sembrano smentire questa dinamica: le famiglie in condizione di povertà assoluta risultano essere più di 2 milioni e 234.000, ovvero l’8,5% delle famiglie residenti (+0,2 punti percentuali rispetto al 2022), mentre gli individui che si trovano in questa condizione sono più di 5,7 milioni, pari al 9,8% delle persone residenti.
Numeri alla mano, dunque, al netto di piccolissime variazioni, se il fenomeno della povertà assoluta può essere considerato stabile rispetto all’anno scorso, resta certamente il dato che ne registra il forte aumento nell’arco dell’ultimo decennio, sia per le famiglie che per le singole persone.
A questa dinamica si associa la crescita della spesa delle famiglie in valori correnti nel periodo post-pandemico: solo nell’ultimo anno, questo incremento è stato pari al 3,9%. Percentuale che, tuttavia, in termini reali corrisponde al -1,8%, per effetto dell’inflazione (+5,9% nel 2023).
Com’è noto, il calcolo della povertà assoluta si basa sulla spesa per i consumi delle famiglie: nello specifico, come indicato dall’Istat, sono classificate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia di povertà assoluta (diversa per dimensione e composizione della famiglia, regione e tipo di comune), che rappresenta la spesa minima necessaria per acquisire i beni e i servizi inseriti nel paniere della povertà assoluta.[1]
Per costruzione, dunque, la misura della povertà (sia assoluta che relativa) viene definita secondo una dimensione familiare. Dunque, dal punto di vista metodologico, “si assume che le risorse familiari vengano equamente condivise tra tutti i componenti; di conseguenza, gli individui appartenenti a una famiglia povera sono tutti ugualmente poveri”.
Da un punto di vista di genere, la presenza o l’assenza di una differenza fra gli individui è calcolata in termini di incidenza, ovvero come il rapporto fra gli individui uomini e gli individui donne in condizione di povertà sui rispettivi totali. Questo dato (presentato nella Figura 1) mostra un preoccupante aumento del fenomeno negli anni già rilevato in molte analisi. Tuttavia, non evidenzia differenze rilevanti fra le due componenti (una simile assenza di distanza si rileva per quanto riguarda la povertà relativa).
Figura 1. Incidenza della povertà assoluta degli individui per genere negli anni 2021, 2022, 2023(a) (valori percentuali)
Eppure, se osserviamo i dati Eurostat relativi alla somma delle persone che sono a rischio di povertà o gravemente svantaggiate o che vivono in famiglie con intensità di lavoro molto bassa, si può notare come le donne risultino sempre in una condizione di svantaggio, sia a livello europeo che a livello italiano (Figura 2). Le donne in Italia, peraltro, presentano valori di svantaggio superiori a quelli della media europea.
Figura 2. Persone a rischio di povertà o di esclusione sociale negli anni 2021, 2022, 2023 (valori percentuali)
Il tema, dunque, è quello dell’invisibilità della povertà femminile. Un aspetto che si connette con l'approccio – ormai ampiamente condiviso – che vede la povertà stessa come un fenomeno multidimensionale che interessa, fra le altre cose, gli ambiti di cura, le relazioni familiari, l’occupazione, le opportunità di uscita dalle condizioni di svantaggio, le modalità di misurazione della povertà.
La realtà in cui vivono le donne in condizione di povertà è molto diversa rispetto a quella degli uomini. Anche rispetto al lavoro, ad esempio, si caratterizza infatti in maniera diversa dal punto di vista delle modalità di ingresso e delle possibilità di uscita dalla condizione stessa e per i differenti tempi di permanenza. Il fenomeno della povertà femminile va dunque analizzato secondo un approccio multidimensionale, che tenga conto di una molteplicità di variabili e di indicatori, che deve necessariamente combinarsi a una prospettiva di genere.
In un recente articolo pubblicato su inGenere a partire dal Rapporto sul benessere equo e sostenibile, Francesca Frajese e Rosy D’Elia parlano non a caso di "sabbie mobili", evidenziando la difficoltà, per le donne, di uscire da una condizione di svantaggio.
Del resto, oggi è un’idea condivisa quella per cui il reddito, sebbene sia un indicatore primario e significativo per definire l’appartenenza a uno status di povertà, non possa costituirne l’unico, poiché rischia di non cogliere la complessità del fenomeno.
La povertà femminile si deve quindi leggere e analizzare a partire dall’intersezione fra tre dimensioni: familiare e relazionale, occupazionale e lavorativa, e pubblica, che organizza e realizza il sistema di protezione sociale.
Per ragioni culturali, storiche e sociali, le donne vivono una particolare condizione di dipendenza rispetto a queste tre sfere, ritrovandosi penalizzate rispetto ai processi di integrazione o esclusione sociale.
L’invisibilità della povertà femminile non è peraltro un tema nuovo. Già nel 2000, un lavoro della Commissione di indagine sull'esclusione sociale della Presidenza del Consiglio sottolineava che “questa sembra anche dipendere dalla concettualizzazione tradizionale del fenomeno e dalle unità di misura tipicamente utilizzate nelle statistiche ufficiali che hanno definito la povertà in relazione alle caratteristiche finanziarie delle famiglie, senza tenere conto di ciò che avviene a livello individuale nelle unità familiari, cioè della disparità nella distribuzione delle risorse all'interno del nucleo. Se sussiste una concreta ineguaglianza nella distribuzione delle risorse materiali e temporali tra donne e uomini, i metodi convenzionali di 'misurazione' della povertà che assumono una divisione equa delle risorse tra i membri della famiglia possono portare a una sottostima della povertà femminile e a una sovrastima di quella maschile”.
Allo stesso modo, una molteplicità di documentazione europea ribadisce la necessità di una modifica nelle modalità di rilevazione dei dati: nell’ultima Proposta di risoluzione del Parlamento europeo di gennaio 2024, ad esempio, si fa riferimento alla necessità di garantire “dati comparabili, disaggregati per età, sesso e genere che rappresentino la situazione delle persone che subiscono forme di discriminazione multiple e intersezionali, in modo da migliorare l'analisi dei dati e orientare l'elaborazione e l'attuazione delle politiche, dal momento che attualmente sono disponibili meno della metà dei dati necessari per monitorare l'obiettivo di sviluppo sostenibile 5: raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”.
Le donne hanno più bisogno di misure di sostegno
I dati sulle richieste di misure di sostegno al reddito e di contrasto alla povertà in Italia mostrano un quadro differente da quello che emerge dai dati sulla povertà assoluta dell’Istat riportati nella Figura 1. Infatti, secondo una ricerca dell’Acli condotta tramite le banche dati del Caf Acli e del Patronato Acli, le richieste effettuate nel 2021 per diverse categorie di sostegno al reddito sono state per la maggior parte presentate da donne.
Domande per sostegni al reddito, per genere nell'anno 2021 (valori percentuali)
Più recentemente, la relazione del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali contenuta nel Rapporto di monitoraggio sulla gestione e sugli esiti del Reddito di cittadinanza relativo agli anni 2020-2023 pubblicato a giugno di quest’anno, riporta, con riferimento ai nuclei monocomponenti, che “la percentuale di monocomponenti che non ha mai avuto un contratto di lavoro subordinato prima di diventare beneficiario del reddito di cittadinanza (RdC) è pari a circa un terzo per i nuclei indirizzati ai servizi sociali, con un’incidenza più alta tra le donne (37%). La stessa percentuale scende al 25% per i beneficiari monocomponenti indirizzati ai centri per l’impiego. Gli occupati al momento dell’assegnazione sono il 16% dei maschi indirizzati ai centri, percentuale che scende al 15% per le femmine (14% nel 2021). Per gli individui indirizzati ai servizi sociali le percentuali scendono rispettivamente al 4% per i maschi (6% nel 2021) e all’8% per le femmine (11% nel 2021)”.
Inoltre, se guardiamo alla quota dei e delle beneficiarie transitate nei servizi per il lavoro nell’arco di tempo che va dal 2020 al 2022, osserviamo che sono più le donne rispetto agli uomini e, soprattutto, che in percentuale sono aumentate di anno in anno.
Beneficiari/e transitati/e nei servizi per il lavoro per genere e annualità
Infine, anche i nuovi dati sul Supporto Formazione Lavoro pubblicati il 9 luglio dall’Inps rilevano che nel mese di maggio 2024, su quasi 57.000 beneficiari, le donne sono più di 32.000, ovvero il 56,9%.
Migliorare i dati per attivare le politiche
Da questi dati emerge quindi una maggiore necessità da parte delle donne di ricevere misure di sostegno al reddito e quindi di contrasto alla povertà, e di essere inserite in percorsi che permettano loro di trovare una nuova occupazione.
È fondamentale coniugare la definizione, l’analisi e il monitoraggio della povertà con un approccio per evidenziare e misurare le disuguaglianze di genere all’interno del fenomeno stesso. Il rischio, altrimenti, è di ottenere non solo una sottostima ma anche una distorsione del fenomeno. Questo si tradurrebbe non soltanto in un errore riguardante le stime, ma anche nell’attuazione di politiche non in grado di tener conto della realtà del fenomeno e, nei fatti, inefficaci.
Come riporta l'ultimo Global Gender Gap Report del World Economic Forum “per raggiungere la parità in tutto il mondo saranno necessari 134 anni”, ovvero cinque generazioni. L’Italia, purtroppo, in questo senso sembra aver fatto passi indietro invece che in avanti, posizionandosi all'87esimo posto tra 146 paesi confrontati (nel 2023 era al 76esimo), evidenziando un ulteriore inasprimento delle criticità nel raggiungimento della parità.
Dal punto di vista delle conoscenze, dunque, è necessario adottare quel cambio di paradigma a cui più volte si è fatto riferimento, includendo nelle misurazioni anche quei fattori, non necessariamente di tipo economico, che consentano un’emancipazione dallo svantaggio.
Note
[1] È opportuno segnalare che l’Italia è l’unico stato Ue che utilizza un indicatore assoluto come misura ufficiale della povertà a livello nazionale. Questo approccio rappresenta un valore aggiunto rispetto ai metodi esistenti (Measuring and monitoring absolute poverty (ABSPO), Final report, European Union, 2021).