Politiche

Ambiziosa e determinata, alle prese con un mandato da consigliera di parità, Rossana Mungiello racconta l'esperienza degli sportelli donna nella provincia di Belluno. Un territorio dove l'isolamento è un problema, ma le questioni di genere sono considerate un vezzo

Io, consigliera di parità
Rossana Mungiello racconta

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Foto: Flickr/Mattia Panciroli

Nel gennaio 2012 vengo nominata consigliera di parità effettiva della provincia di Belluno, un territorio completamente montano dove risiedo da qualche anno. Non ho collegamenti significativi a livello locale e al tempo la carica non è considerata particolarmente allettante in quanto politicamente “poco visibile” e densa di difficoltà. Quando decido ad agosto 2011 di inviare il mio curriculum per la candidatura, in realtà non penso di poter essere io la persona che sarà designata per questo incarico dalla Provincia, allora a presidenza leghista. Il mio cognome infatti certo non è d’aiuto. Eppure ottengo una schiacciante maggioranza di voti da parte della commissione provinciale del lavoro di allora e il presidente della Provincia – commissariata subito dopo – è costretto a designarmi nonostante il voto contrario del suo assessore al lavoro. Il ministero poi provvede alla nomina formale, come da disposizioni di legge.

Belluno. Un territorio periferico e lontano dai veri centri di potere. Pochi voti da portare a casa. I finanziamenti che arrivano qui risultano esigui e le esigenze di un territorio difficile come quello montano decisamente trascurate. Venezia qui è lontana al pari di Roma.

La popolazione bellunese ha un’età media di oltre 46 anni, in maggioranza si tratta di donne. Lo spopolamento del territorio si mostra ormai inarrestabile da tempo. I residenti sono oggi 207.894 su un territorio di ben 3.672 chilometri quadrati, con una densità abitativa di circa 56 abitanti per chilometro quadrato. Abitanti in diminuzione ormai dal 2008, come dimostrano i daiti più recent, pubblicati dall’ufficio statistico provinciale a ottobre 2016. Il calo delle nascite che procede costantemente dal 2002 pare esserne la principale ragione: quasi un diritto alla riproduzione negato in particolar modo a queste terre. Nemmeno gli stranieri residenti riescono a contrastare il trend locale. Le fasce di età 25-30 anni, 31-35 anni, 36-40 anni infatti sono in netto calo dal 2002 per i nativi e l’apporto degli stranieri che vivono qui si rivela ininfluente. La popolazione con oltre 65 anni (51.893) rappresenta circa un quarto di quella residente ed è quasi doppia rispetto a quella sotto i 14 anni (25.551).

Parlare di genere o di pari opportunità in un territorio come quello bellunese dove la percentuale di popolazione anziana è nettamente dominante si mostra subito piuttosto arduo. Gli stessi enti locali faticano a trovare fondi per istituire assessorati o commissioni pari opportunità. Diciamo che di solito le questioni di genere non sono considerate una priorità quanto piuttosto un vezzo su cui è inutile perdere tempo e soldi. Eppure le persone qui vivono perlopiù in piccolissimi centri arrampicati sulle montagne dove l’isolamento e la scarsità dei collegamenti appaiono evidenti. Il problema dei trasporti e della viabilità è molto sentito. In aggiunta, a peggiorare in particolare la vita delle donne, a causa dei continui tagli alla spesa pubblica vengono chiusi consultori, accorpati punti nascita. Una donna in procinto di partorire nelle terre più lontane della provincia deve percorrere ore di auto su strade poco agevoli, magari innevate, per raggiungere l’ospedale più vicino. La debolezza delle politiche pubbliche dedicate alle donne in tema di conciliazione vita-lavoro o in generale di aiuto per l’assistenza a figli, anziani o malati, politiche già poco incisive a livello nazionale, diventa ancora più evidente in un territorio montano e impervio come quello bellunese. 

Tutto è demandato all’iniziativa privata. Dipende dalle disponibilità. Nel territorio provinciale prevalentemente manifatturiero importanti gruppi industriali - sovente beneficiari degli incentivi statali seguiti alla tragedia del Vajont - si avvantaggiano oggi di un cospicuo numero di addette. Il tasso di occupazione femminile della provincia è al 62% per il 2015[1]. Prevalgono però le forme del lavoro precario rispetto alle controparti maschili, in particolare nei contratti a tempo determinato ma anche nella nuova modalità del lavoro a chiamata. 

In aggiunta, le donne del bellunese così massicciamente impegnate nel lavoro per il mercato sono oberate dai carichi familiari, aggravati poi dalle lunghe distanze e dalle stagioni poco clementi. Con l’aiuto dei sindacati, alcune delle imprese più grandi attivano iniziative di sostegno alle famiglie dei/delle loro dipendenti nei contratti aziendali – sebbene qualche scivolone sulla via delle discriminazioni di genere possa talvolta verificarsi, come mi è capitato di vedere. Dove invece le dimensioni sono più esigue, negli studi professionali o nella piccola impresa – che lavora magari in conto terzi per le società più significative della zona –, scivolare è molto più facile. Spesso i commenti dei titolari convocati presso il mio ufficio sono del tipo: certi “lussi” non sono accessibili per noi. Le questioni che riguardano la vita delle donne sono considerate, appunto, perlopiù un lusso.

Una delle iniziative che ho subito ritenuto di fondamentale importanza per il mio mandato è stata quindi la creazione di sportelli donna, spazi diffusi sul territorio di collegamento e aggregazione destinati alle donne. Il mio intento era anche quello di consentire un contatto, o meglio, un tramite con il mio ufficio, in particolare alle donne che vivono nelle zone più lontane del territorio provinciale. Il servizio doveva fornire quindi assistenza partendo dall’inserimento/consulenza per le questioni legate al mondo del lavoro, per allargarsi poi al sostegno relativo alle esigenze familiari o anche strettamente personali, mettendo in collegamento le utenti con la rete dei servizi territoriali, compreso il centro anti-violenza. A dimostrazione della necessità di punti di contatto di questo tipo per un territorio montano, racconto qui un aneddoto significativo. La sindaca di un piccolo centro a cui mi ero rivolta per mostrare il progetto, quasi per ostentare l’efficienza della sua amministrazione mi racconta a un certo punto di avere istituito una sorta di riferimento “locale” per le discriminazioni di genere nella persona del suo vigile urbano, una donna. Al mio invito ad indirizzare invece le donne del suo comune presso il mio ufficio in Provincia, la sindaca mi risponde: “ma chi vuole che venga fino a Belluno da quassù?”. Mi convinco quindi sempre di più della validità della mia iniziativa. 

Il progetto viene portato a compimento nel 2014 e richiede due anni per la sua realizzazione. Il risultato viene raggiunto nonostante le difficoltà organizzative derivanti soprattutto dallo scarso supporto offerto alla sottoscritta dall’ente che ospita il mio ufficio, in particolare durante il suo commissariamento nei primi anni del mio mandato. Individuate quindi le possibili linee di finanziamento di cui la principale costituita da un bando regionale, vengono predisposti due progetti che coinvolgono diversi comuni opportunamente dislocati su tutto il territorio provinciale. 

Evidentemente all’inizio è stato necessario convincere le amministrazioni comunali ad aderire all’iniziativa. E non è stato facile: nonostante i miei lunghi e numerosi viaggi presso i vari municipi su e giù per le montagne, degli oltre venti comuni contattati alla fine accetta solo una metà. Da principio la mia intenzione era quella di coinvolgere i quattro comuni sede dei rispettivi centri per l’impiego provinciali: Belluno, Feltre, Pieve di Cadore e Agordo. Tuttavia, nonostante un primo interesse, i comuni più grandi, Belluno e Feltre, alla fine decidono di non aderire. Agordo nemmeno. Un peccato. Scelte politiche, mi dico.

La prima a partire invece è la sindaca di Pieve di Cadore. Una donna. I sindaci degli altri tre comuni sopra indicati sono uomini. Dopo Pieve di Cadore accetta subito Santo Stefano di Cadore. Un’altra donna. Si aggiunge poi Perarolo dietro la spinta decisa di una consigliera comunale e cosivvia altri comuni del Cadore, Domegge ed Auronzo. Le cosiddette Terre alte sono coperte.

Mi rivolgo poi più a sud. Dopo il no di Belluno chiedo a Ponte nelle Alpi, un comune vicino al capoluogo che aveva già tentato in passato un’esperienza di questo tipo. Nonostante le elezioni amministrative molto vicine – o forse proprio grazie a queste – il comune accetta. Si aggiungono Soverzene, Longarone e Puos d’Alpago. Infine, verso il feltrino aderisce anche Mel e viene così coperta in parte anche la cosiddetta Sinistra Piave. 

La Regione Veneto approva il finanziamento di entrambi i progetti presentati e finalmente nel 2014 può partire il servizio degli sportelli donna anche nel territorio bellunese, un territorio che non aveva mai attivato nulla di simile e che può finalmente allinearsi alle altre province venete unendosi alla Rete Quidonna di servizi certificati dalla Regione. Tuttavia, l’anno successivo, nel 2015, contrariamente alle aspettative, è proprio la nuova giunta regionale a decidere di chiudere dopo anni la linea di finanziamento dedicata agli sportelli donna. Il territorio bellunese al pari degli altri territori provinciali veneti si vede privato così della fetta maggiore dei finanziamenti.

Appena nata, l’esperienza della montagna bellunese è costretta quindi a interrompersi, non potendo contare su risorse locali alternative. Un vero peccato, perché dopo il periodo iniziale in cui il servizio doveva sperimentarsi per consolidarsi poi negli anni successivi come punto di riferimento per le donne nei piccoli centri – centri così piccoli da apparire quasi come “polvere sulle montagne” – non può più continuare. E le donne che vivono qui restano di nuovo un po’ più sole.

Note

[1] Secondo i dati Istat pubblicati nel 2016, nel 2015 il tasso generale di occupazione, superiore rispetto al dato nazionale (56,7%) e regionale (63,4%), vede un miglioramento rispetto all’anno precedente 2014, passando dal 67,6% al 68,3%. Nello specifico, però, per le donne resta fermo ai livelli del 2014 (62,1% nel 2014 e 62,0% nel 2015) a fronte di un dato maschile in aumento di oltre un punto percentuale (dal 73,1% del 2014 al 74,7% del 2015). Riguardo poi al tasso di disoccupazione nel territorio bellunese se per gli uomini il tasso si attesta al 5% per le donne raggiunge invece il 7,1%. Secondo i dati diffusi nel 2016 da Veneto Lavoro, inoltre, sebbene le donne superino gli uomini nelle assunzioni per lavoro dipendente (51%) esse prevalgono anche nelle cessazioni (51%). Riguardo infine alle condizioni contrattuali, le donne continuano a sperimentare occupazioni contraddistinte da maggiore insicurezza. Sono ancora le donne infatti a pesare maggiormente nei contratti a termine (54,0%), mentre le controparti maschili sono predominanti nelle assunzioni a tempo indeterminato (58,5%). Tuttavia, anche per gli uomini vi è una tendenza verso la precarietà contrattuale in particolare nelle fasce di età più giovani. Gli uomini prevalgono nello specifico nella somministrazione e nell’apprendistato.

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