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Nonostante le trasformazioni culturali in corso, il racconto dei media è ancora radicato a miti e stereotipi su donne per bene e donne per male. C'è bisogno di cambiare visione, a partire dalle immagini che accompagnano il discorso sulla violenza

Decostruire l'immagine
della vittima perfetta

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Foto: Unsplash/ Rishabh Dharmani

Da molti anni ormai, i movimenti delle donne, i centri anti-violenza, le giornaliste come le avvocate, le donne impegnate in politica e nelle associazioni hanno contribuito a diffondere una sensibilità, ma anche un lessico politico e strumenti concettuali per comprendere la violenza di genere come forma di violenza strutturale, rendendola chiaramente una questione di interesse pubblico. Riflessioni come quelle di Lea Melandri, Patrizia Romito, Verónica Gago, Rita Laura Segato, Silvia Federici e altre hanno contribuito a comprendere le complesse articolazioni che intercorrono tra violenza sulle donne e amore romantico, neoliberismo ed estrattivismo, vecchie e nuove forme di colonialismo e sfruttamento.

E ancora, la nozione di “femminicidio” – inizialmente adottata da Marcela Lagarde per dare conto del genocidio di donne compiuto a Ciudad Juarez in Messico – da quel contesto ha superato i confini geografici e politici che ne avevano limitato la pur significativa circolazione per diventare uno degli strumenti più efficaci a livello globale per denunciare la violenza sulle donne.

È interessante sottolineare come con la parola “femminicidio” non si intende esclusivamente l'uccisione di una donna o di una ragazza”, ma anche “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Questa nozione smaschera i rapporti di forza strutturali e le norme di genere che opprimono la vita delle donne fino a causarne l'uccisione.

Eppure esiste uno scarto irriducibile tra il piano di ciò che accade e quanto viene raccontato dai media. L'impressione è che, nei fatti, l'iconografia e le strutture proprie del racconto mediatico siano profondamente ancorate a un immaginario che è plasmato da rapporti di forza e di potere che affondano in una storia e in un'ideologia il cui lavoro di smascheramento è solo recentemente iniziato. 

C'è allora un grande bisogno di ripensare le narrazioni a partire dalle immagini che le accompagnano. Queste sono ancora così stereotipate, che molto spesso veicolano una forma di vittimizzazione secondaria.

Come le immagini raccontano la vittima perfetta

È importante essere consapevoli del fatto che le immagini delle donne che vediamo nel racconto della violenza non rimandano tanto a delle donne reali, e che piuttosto sono parte attiva nel processo di produzione di un'idea di "donna" come categoria, quindi di un'immagine di femminilità e sessualità che hanno un preciso effetto su chi le guarda.

Nel momento in cui i giornali vorrebbero descrivere la realtà della violenza, le stanno già dando forma, nel senso che sono uno di quei luoghi attraverso cui viene prodotto e fatto circolare il significante “donna”. È per questo che l'immaginario a cui attingono sembra essere un repertorio di figure cristallizzate, da cui emerge una geografia del corpo femminile profondamente colonizzata. Come vedremo, si tratta di un processo che va a comporre un'ideale “vittima perfetta”: una giovane donna, che urla, ma subisce la violenza; che si ritrae, ma porta i segni visibili che le marchiano il corpo; che è in casa (non fuori a divertirsi) ma è sola. È dunque una vittima perfetta soprattutto perché inerme e senza risorse.

Se per esempio si prendono le fotografie che spesso accompagnano gli articoli di giornale in cui si parla di violenza contro le donne o di stupro, o che sono scelte per promuovere campagne di prevenzione sulla carta stampata facilmente reperibili anche in rete, si può notare una forte continuità che poggia su una visibilità del femminile che è circoscritta quasi esclusivamente alla rappresentazione di donne giovani nel ruolo di vittime attraverso l'ossessiva riproposizione di corpi femminili vittimizzati e martoriati.

Nonostante queste immagini si sforzino di dare forma alla violenza e alla sofferenza delle donne, tuttavia la grammatica della rappresentazione che ne è alla base porta a reiterare lo spettacolo erotizzato e voyeuristico dei corpi femminili, dove un preciso regime scopico sovrintende alla politica dello sguardo: l'attività del guardare è prerogativa maschile, mentre il femminile svolge la funzione di essere guardato.

Le tecniche utilizzate nella produzione di queste immagini vittimizzanti sono dunque profondamente genderizzate e, anziché contribuire a creare consapevolezza e eventualmente favorire la presa di parola pubblica, producono l’effetto contrario: sono donne oggettificate, considerate unicamente come corpi all’interno di una visione fortemente stereotipata della femminilità che demarca ulteriormente i limiti della possibile agency femminile.

Se si analizza, per esempio, l’iconografia attraverso cui sono rappresentate le donne in queste immagini, ci si rende conto di quanto siano tutte simili perché ricalcate dalla stessa matrice.

L’inquadratura è spesso dall’alto, come se fosse una soggettiva dell’aggressore, alto e potente lui, bassa e sottomessa lei. La giovane donna si copre il viso con le mani, ma l’assenza del suo volto le sottrae identità rendendo così la figura completamente spersonalizzata. In tutte le immagini pubblicate la donna è seduta, o per meglio dire, accovacciata a terra e raggomitolata su se stessa. A chi guarda questa posizione comunica un forte senso di disagio, ma anche arrendevolezza, sottomissione e incapacità di reazione, esprimendo uno stato di smarrimento, disperazione e chiusura.

Sembra insomma di assistere a una vera e propria "ritualizzazione della subordinazione" che contribuisce a creare una gerarchia invisibile tra i generi. Le giovani donne si trovano per lo più in uno spazio interno, forse quello domestico, ma sono ridotte negli angoli o comunque circondate da spigoli. Nessuno è intorno a loro: si tratta di donne sole. La giovane donna è dunque ritratta come vittima passiva, inerte, debole, isolata, introversa, spersonalizzata, incapace di reagire, priva di risorse. In altre parole è il soggetto della paura.

Chi di noi vorrebbe riconoscersi in questa iconografia della vittima? Una donna che si vede socialmente rappresentata così, è incentivata alla denuncia? Infine, perché si sceglie di denunciare la violenza con immagini che la esprimono?

In queste immagini ci sono almeno tre motivi ricorrenti. Prima di tutto è sempre presente uno strappo nel vestito o nelle calze o la mancanza di una scarpa a epitomizzare il segno della violenza subita. Poi una parte del corpo è sempre esposta, scoperta, o nuda a suggerire la violabilità del corpo femminile. Infine i capelli sono arruffati, scomposti, disordinati. I capelli lunghi e scompigliati che queste immagini ritraggono non sono, però, né casuali né frutto di un vezzo estetico. Si tratta di donne letteralmente (e simbolicamente) scapigliate a suggerire la trasgressione di un codice morale ben preciso. Mentre i capelli raccolti e legati nelle donne sono sintomo di una sessualità addomesticata e controllata (dal matrimonio), i capelli lunghi e disordinati, al contrario, sono il segno di una sessualità trasgressiva rispetto ai codici dominanti.

Sono gli stessi capelli che indicavano – in letteratura così come nell’arte – la fallen woman: la donna che ha perso la sua innocenza, e soprattutto la sua castità. Moralmente caduta, e quindi persa. Non è un caso se spesso i capelli coprono il volto della donna. È la vergogna a nasconderle il viso perché lei è l’unica a portare il peso dell’onta subita. C’è dunque un unico sottotesto in queste immagini: la donna che subisce violenza è solo e soltanto una vittima inerme e indifesa, ma al contempo è colei che porta i segni dello stigma sociale che la macchia indelebilmente.

Infine, se la donna vittima della violenza è l’oggetto della fotografia, chi sta dall’altra parte dell’obiettivo? Guardando con attenzione, ci si rende conto che le immagini usate per raccontare la violenza simulano in realtà una donna che si copre dal suo aggressore che è lì presente. Vale a dire che l’immagine ritrae la donna aggredita come se l’uomo violento fosse di fronte a lei, ossia nel punto dove ci troviamo noi. Volenti o nolenti, persino una donna impegnata e sensibile si trova a guardare la vittima dalla stessa prospettiva del suo aggressore. Perché mai dovrebbe fidarsi di noi se sa che non stiamo dalla sua parte? Come si fa a far uscire le donne dal ruolo di vittime se si insiste a rappresentarle solo come tali? 

Superare l'estetica della violenza

Un ulteriore fenomeno da sottolineare è l’estetizzazione della violenza. Anche in alcune campagne di sensibilizzazione, succede che la violenza sia spesso glamourizzata rendendo queste immagini accettabili e invitanti. La patina da copertina sembra un ingrediente necessario nelle campagne pubblicitarie e nei servizi di moda che richiamano un immaginario di violenza e stupro, come pure nelle campagne di sensibilizzazione che ricorrono ad ambigue fotografie di donne martoriate, mutilate o incise. Si indugia su un gusto macabro reiterando paradossalmente immagini violente quando si vorrebbe eliminare la violenza. Queste immagini sembrano suggerire come le donne che subiscono violenza non siano vittime solo di quella violenza, ma siano vittime tout court rendendo ben visibili i segni di ciò che hanno subito. Come martiri, attraverso l’iscrizione della pena nella propria carne, le donne testimoniano senza ribellarsi la forma di sacrificio a cui sono sottoposte.

Per concludere, l'ombra di un fenomeno ancora più inquietante si allunga sulla rappresentazione mediatica della violenza, quello del racconto della violenza nella pubblicità. Si tratta di un uso puramente strumentale, a volte esplicitamente commerciale, che usa la violenza sulle donne per promuovere aziende e compagnie private per offrire un'immagine, non importa quanto reale, di un mercato dal cuore tenero e benevolo.

Nell'immagine usata recentemente da una campagna nazionale di un noto gruppo editoriale in occasione dell'8 marzo 2022 la donna che subisce violenza non era neppure direttamente rappresentata, ma veniva evocata per il suo ruolo di madre, in quanto collante della famiglia – quindi solo per il suo valore estrinseco di cura – ed era richiamata da una piccola figurina bidimensionale in cartone tenuta in mano da un bambino, con le fattezze dei disegni stereotipati della casalinga anni '50.

Un incitamento declinato al plurale Salviamola, non corredato né da un numero telefonico né da un indirizzo di un centro anti-violenza a cui rivolgersi, sembrava più una richiesta a mantenere l'unità famigliare, che a offrire un effettivo aiuto alla donna che subisce violenza all'interno del contesto domestico. Il claim Anche noi combattiamo era invece riferito alle aziende che avevano acquistato lo spazio pubblicitario in questione, proposto per la cifra di 500 euro +iva: l'inizio di una possibile nuova fase della presenza della violenza sui media. Per un'Italia sempre più buonista, familista e neoliberista. 

Riferimenti

Teresa de Lauretis, Sui generis. Scritti di teoria femminista, Feltrinelli, Milano, 1996.

Cristina Demaria, Roberta Sassatelli (a cura di), “Visioni del femminile”, in Studi Culturali, Vol. III, 2013.

Silvia Federici, Caliban and the Witch: Women, the Body and Primitive Accumulation, Autonomedia, New York, 2004.

Veronica Gago, La potencia feminista. O el deseo de cambiarlo todo, Traficantes de Sueños, Madrid, 2019.

Cristina Gamberi, “Retoriche della violenza. Il femminicidio raccontato nei media italiani”, in Simona Feci e Laura Schettini (a cura di), La violenza contro le donne in una prospettiva storica. Contesti, linguaggi, politiche del diritto, Viella Edizioni, Roma, 2017.

Erving Goffman, La ritualizzazione della femminilità, in Studi Culturali, Vol. VII, N. 1, 2010.

Alessandra Gribaldo, e Giovanna Zapperi, Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità, Ombre corte, Verona, 2012.

Griselda Pollock, Vision and Difference. Femininity, Feminism and Histories of Art, Routledge, London, 1988.

Laura Mulvey, Visual pleasure and narrative cinema, in The Feminism and Visual Culture Reader, a cura di Amelia Jones, Routledge, London and New York, 2003.

Rita Laura Segato, La guerra contra las mujeres, Traficantes de Sueños, Madrid, 2016.

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