Politiche

L'analisi dello schema di decreto sugli asili in discussione spiega perché i nidi non sono ancora uno strumento di pari opportunità per mamme e bambini

Decreto asili. Meglio che nulla,
ma lontano dal necessario

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Foto: Flickr/ Bart Everson

Lo Schema di decreto legislativo recante istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni (380) (articolo 1, commi 180, 181, lettera e), e 182, della legge 13 luglio 2015, n. 107 - trasmesso alla Presidenza il 16 gennaio 2017 - definisce chiaramente i nidi d'infanzia come servizi educativi a tutti gli effetti integrati alla scuola per l'infanzia, con l'obiettivo  di "garantire ai bambini e alle bambine pari opportunità di educazione, istruzione, cura, relazione e gioco, superando disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali". Si conferma così, e sperabilmente si consolida, un processo già ampiamente avviato, almeno nella maggioranza dei comuni delle regioni centro-settentrionali. 

Perché l'obiettivo si realizzi occorre che si realizzino almeno due condizioni. La prima è il superamento della enorme disparità territoriale nei livelli di copertura -  dal 26% circa dell’Emilia-Romagna a meno del 2% della Calabria -  non compensati neppure dalla offerta privata, come mostra una recente indagine Istat[1]. Questa stessa indagine, inoltre, mostra che se si considerano i posti in strutture pubbliche, convenzionate e private si arriva ad un tasso di copertura pari a circa il 20%: un dato molto lontano dal (modesto) obiettivo del 33% che l’Unione Europea si è data all’interno della Strategia Europa 2020. La seconda condizione è l'accessibilità economica del servizio, non sempre agevole per le famiglie di ceto medio a doppio lavoratore che non rientrano tra coloro che hanno una retta scontata - e non possono permettersi le rette dei nidi privati nel caso frequente di mancanza di posti nel settore pubblico o convenzionato. A differenza delle scuole per l'infanzia, i nidi sono definiti servizi a domanda individuali, per i quali è richiesta la compartecipazione ai costi da parte dell'utente.

La scarsità dell'offerta, le differenze territoriali e i costi non sempre sopportabili contribuiscono sia a rafforzare le disuguaglianze nelle pari opportunità tra bambini e bambine sul territorio nazionale - fra Nord e Sud - e per classe sociale - sono soprattutto i figli delle classi medio-alte più che di quelle popolari ad accedere -, sia a far considerare il nido e servizi simili un servizio a bassa legittimità culturale, da utilizzarsi solo in caso di estremo bisogno o di mancanza di alternative famigliari. Tutto ciò rende difficile ai genitori, in particolare alle madri, conciliare la ricerca e il mantenimento di una occupazione in presenza di un bambino molto piccolo, con effetti negativi sia sulle decisioni di fecondità sia sulla permanenza delle donne nel mercato del lavoro e sul loro reddito a medio e lungo termine. 

Con lo schema di decreto, per altro al vaglio di un parlamento i cui orizzonti temporali appaiono incerti, ci si muove decisamente in direzione del valore educativo del nido, richiedendo perciò precise qualifiche professionali a chi vi opera (art. 2) e aprendo a un modello flessibile di cui il nido a tempo pieno è il nucleo centrale ma non esclusivo. Tuttavia due problemi cruciali non vengono risolti. In primo luogo le risorse aggiuntive messe in campo, 229 milioni all'anno da distribuire a livello locale, costituiscono indubbiamente un segnale positivo, ma non sufficiente a far raggiungere in tempi ragionevoli l'obiettivo del 33% di copertura, anche includendo i nidi convenzionati, i micronidi e i servizi a tempo parziale. I dati Istat riferiti al 2013 indicano che la spesa corrente dei Comuni per i servizi per la prima infanzia, al netto del contributo delle famiglie pari a 310 milioni di euro, ammontava a 1,25 miliardi, garantendo una copertura del 13%. Un aumento annuo di 229 milioni rappresenta un incremento di circa un quinto della spesa attuale. Meglio che nulla, ma lontano dal necessario.

Anche la questione delle rette e dell'accessibilità economica per le famiglie rimane insoluta. Nella bozza di decreto si parla ancora (art. 9, comma 1), nell’ottica di un servizio a domanda individuale, di compartecipazione delle famiglie alla spesa, la cui soglia massima non è neppure definita ma rimandata  alla “Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, tenuto conto delle risorse disponibili”. Se si pensa che sia opportuno, o inevitabile, introdurre una forma di compartecipazione ai costi, occorrerà individuare criteri più adeguati, che tengano conto anche del possibile effetto selettivo nei confronti di chi non è abbastanza povero per accedere gratuitamente o a prezzo scontato e non abbastanza abbiente da non doversi preoccupare dei costi.

Note

Istat (2016): Asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia: censimento delle unità di offerta e spesa dei comuni.

Articolo pubblicato in contemporanea su lavoce.info