E' davvero questa
l'Europa che vogliamo?
Accordo in extremis, la Grecia è salva? Purtroppo no. Anche il Fmi ammette che di sola austerità si può morire. Con le condizioni poste ad Atene, si vuole forse "colpire uno, per educarne 100". Ma si rischia di colpire l'Europa tutta, alle sue radici
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Le condizioni imposte al parlamento greco dalla “troika” (Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea, Banca centrale Europea) per procedere alla concessione della seconda tranche di 130 miliardi di euro hanno infiammato le strade di Atene. L'operazione è stata messa in dubbio fino all'ultimo, e solo in extremis la Grecia è riuscita a ottenere lo sblocco del prestito e la ristrutturazione del debito detenuto dai privati: un accordo che, secondo i negoziatori, dovrebbe ridurre il rapporto tra debito e Pil al 120% nel 2020. Le condizioni sono tuttavia durissime e rafforzano l'immagine della Grecia come quella di un paese “commissariato”: sarà inviata una task force permanente di osservatori della troika ad Atene; il nuovo prestito sarà pagato a rate, e potrà essere usato esclusivamente per pagare il servizio del debito. Il prestito è subordinato a un pacchetto di misure: riduzione del 22% del salario minimo, da 751 a 586 euro al mese, congelamento del salario minimo per 3 anni, congelamento di tutti i salari fino a che il tasso di disoccupazione scenda al 10% (attualmente è al 19,2%), taglio del numero di dipendenti pubblici di 150.000 unità entro il 2016, riduzione di 15.000 posti di lavoro nel settore pubblico entro il 2012.
Questo pacchetto non è che l’ultimo di una serie. Nel maggio 2010 (dopo essere stata stretta per un intero anno nella morsa della crisi del debito), la Grecia ottenne 110 miliardi di euro, al prezzo di una serie di misure di austerità volte a ridurre il deficit e ristabilire la fiducia degli investitori. Tra queste la riduzione del 10% degli stipendi dei dipendenti pubblici, che costituiscono un quarto delle forze di lavoro del paese. Il risultato tuttavia non è stato quello sperato: il Pil è crollato del 5,5% nel 2011, e così è saltato l’obiettivo di riduzione del rapporto del disavanzo sul prodotto interno lordo. Gli investitori intanto hanno continuato a chiedere tassi di interesse sempre più alti sul debito pubblico greco. Ne è seguita dunque, nell’ottobre del 2011, l’approvazione di nuove misure di austerità imposte dall’Europa come condizione per il pagamento della seconda tranche di 130 miliardi di aiuti, accompagnate dalle prime manifestazioni violente. Si trascinavano intanto le negoziazioni con le banche creditrici per la riduzione concordata del debito – 70% di sconto – con i leader dei principali paesi creditori nel ruolo improbabile di arbitri.
Questo dunque è il terzo round: nuovi tagli e più fermi impegni ad attuare le misure di riforme strutturali già promesse (e, secondo i leader europei, poco attuate) in cambio del promesso e mai sborsato secondo pacchetto di aiuti. Complessivamente, le misure richieste dall’Unione europea finora hanno provocato una pesante recessione: meno 12% fra il 2009 e il 2011 e la previsione di un ulteriore caduta del 2,8 % (ma si potrebbe arrivare a un meno 6% secondo ultime previsioni) nel 2012. In quattro anni, la Grecia avrà perso il 20% del Pil. Il tasso di disoccupazione è al 19%; è bloccata ogni attività economica, mentre si assiste alla crescita di movimenti estremisti di destra e di sinistra. Come conseguenza della riduzione del prodotto, è cresciuto il peso del debito sul Pil, che a fine 2012 potrebbe arrivare al 198,3% nel 2012 (v. tabella).
Il versamento della seconda tranche permetterà alla Grecia di onorare il debito quando, il 20 marzo, una parte verrà a scadenza, evitando così, almeno temporaneamente, il default. Vi sono tuttavia già ora seri dubbi che la Grecia sarà in grado di rispettare le condizioni imposte: un rapporto riservato preparato per i ministri dell’eurozona (e pubblicato dal Financial Times) prevede che, anche nello scenario più ottimista, le misure di austerità imposte ad Atene rischiano di innescare una recessione così pesante da rendere impossibile alla Grecia di uscire dalla spirale del debito.
Nel frattempo, il parlamento portoghese ha votato un ennesimo piano di austerità per il 2012 sfidando le migliaia di lavoratori che hanno invaso le strade di Lisbona. Le misure – allungamento dell’orario di lavoro di mezz’ora nell’industria privata, tagli della tredicesima e della quattordicesima nel pubblico impiego per gli stipendi superiori a 1.100 euro, tagli a sanità e istruzione, aumento dell’Iva – sono volte a ridurre il disavanzo dal 9,8% del 2010 al 4,5% nel 2012: il prezzo di un prestito di 78 miliardi di euro. Nei prossimi due anni si prevede una caduta del Pil dell’1,9 e del 3%, e un aumento del rapporto debito/Pil dal 93 al 111%. In Irlanda, dopo 4 anni successivi di tagli di bilancio – fra gli altri riduzioni del 20% degli stipendi di infermiere, professori e altri dipendenti pubblici, aumento delle tasse su casa e acqua – che hanno contribuito a una caduta cumulativa del Pil del 10,4% fra il 2008 e il 2010, si è avuta una fragilissima ripresa (0,4% nel 2011), interamente dovuta alle esportazioni. La persistente debolezza della domanda interna infatti ha indotto a rivedere al ribasso (dall’1,2 allo 0,5%) il tasso di crescita previsto per il 2012, ancora una volta interamente riconducibile alle esportazioni1. Nonostante i tagli, si stima che il rapporto debito/Pil salirà dal 108 del 2011 al 124% nel 2014. Con il tasso di disoccupazione al 14%, l’Irlanda è tornato ad essere un paese di emigrazione: 40.000 irlandesi hanno lasciato il paese solo nell’ultimo anno. Infine, la Spagna (tasso di disoccupazione 22,8% nel dicembre 2011) ha rafforzato le politiche di austerità fiscale introducendo una riforma del lavoro volta a rendere più facile e meno costosi i licenziamenti e incentivare l’occupazione dei giovani. L’elenco potrebbe continuare: Romania, Ungheria, Slovenia… L'Italia non sarà come la Grecia, ma il messaggio è chiaro. Siamo tutti tedeschi ora.
Tutto questo avviene mentre l’intera corporazione degli economisti, per una volta unanime, riconosce non l’inutilità, ma la rovina provocata da queste misure di austerità: più si taglia, più il reddito cala, più la situazione del debito peggiora. Ironia della sorte, lo stesso Fmi, che come partner della troika impone le sue dure sanzioni, pubblica rapporti che, ripudiando il suo stesso passato, riconoscono gli effetti disastrosi di politiche fiscali restrittive attuate in recessione, ammonendo che “Sebbene le economie avanzate debbano attuare politiche di consolidamento fiscale, spingere sui freni troppo bruscamente può nuocere alle prospettive di crescita e di occupazione”2 . Nel prevedere un futuro fosco per l’economia europea e mondiale, non ha esitazione nell’attribuirne le cause alla recessione dell’area euro, dovuta all’aumento dei rendimenti sui titoli pubblici, alle conseguenze sull’economia reale delle politiche di riduzione degli attivi delle banche (stretta del credito), agli effetti del consolidamento fiscale (si veda il rapporto Global Recovery Stalls, Downside Risks Intensify).
Qual è dunque la ragione di questa carneficina alla fine della quale sarà distrutto definitivamente quel poco o quel tanto di sistema di welfare che alcuni stati europei avevano messo in piedi? E perché, se il problema sono i debiti dello Stato, si chiede di ridurre i salari nel settore privato? L’economia greca, così come quelle dei paesi europei della periferia, deve diventare più competitiva per aumentare le esportazioni. Infatti, alla radice delle crisi debitorie dei paesi periferici (con forse l’eccezione dell’Irlanda), sta un problema di perdita di competitività relativa, che ha indotto una crescita dei disavanzi dei conti con l’estero, cui fa da pendant il surplus della Germania e di pochi altri paesi dell’Europa del nord. In un’unione monetaria priva di solidarietà fiscale, il solo strumento di mercato per ottenere un riequilibrio della competitività è la flessibilità dei prezzi e dei salari. Se i paesi in surplus non sono disposti a sostenere la domanda interna e lasciar crescere i loro salari e prezzi (cioè perdere competitività rispetto agli altri paesi in disavanzo), dovranno essere questi ultimi a comprimere domanda, prezzi e salari. E poco importa che, come ben sappiamo, possa essere socialmente e politicamente doloroso imporre riduzioni dei salari (e dei prezzi). Che un aumento delle esportazioni presupponga mutamenti strutturali che richiedono tempi lunghi. E che, infine, una riduzione di salari e prezzi, ammesso che fosse possibile ottenerla, implicherebbe una crescita del valore reale del debito e dunque una enorme redistribuzione del reddito dai debitori (imprese, pubblica amministrazione e famiglie indebitate) ai creditori (redditieri, banche, estero).
Scriveva Keynes, nel 19363, che “Soltanto in una società molto autoritaria, dove potessero venir decretate variazioni di salari improvvise, notevoli e generali, una politica salariale flessibile potrebbe funzionare con successo”. I paesi in cui Keynes immaginava che questa politica potesse funzionare erano l’Italia fascista, la Germania nazista o la Russia sovietica del tempo. Potremmo aggiungere, che riduzioni di salari possono forse ottenersi anche in paesi a sovranità limitata, o senza via di uscita, come lo erano i paesi in via di sviluppo sottoposti alla medicina del Fmi. Ma era davvero questa l’Europa che volevamo? E se una qualche forma di Europa sopravviverà, quanto tempo ci vorrà per ricucire le lacerazioni prodotte?
1 E’ importante notare che il tasso di crescita del Pil non misura la crescita del reddito di un paese, cioè il reddito nazionale lordo (Rnl), perché deve essere aggiustata per il valore dei redditi netti dall’estero. Nel caso dell’Irlanda si prevede che il Rnl continuerà a calare anche nel 2012 (dello 0,8%) per effetto dei profitti delle imprese multinazionali operanti in Irlanda.
2 “Painful Medicine”, Finance & Development, September 2011, vol. 48, no. 3.
3 J:M:Keynes, The general theory of employment, interest and money, MacMillan, 1936 p. 269, Traduzione italiana, Utet, p. 459.