Linguaggi

Pensare la tecnologia significa pensare il mondo, ecco perché è importante che a farlo non siano solo i maschi. Ne abbiamo parlato con Marinella Levi, ricercatrice e docente di ingegneria e design dei materiali al Politecnico di Milano

Il mondo oltre lo stampo
Intervista a Marinella Levi

7 min lettura
Foto: Unsplash/ Iker Urteaga

Diceva Marisa Bellisario, per anni alla guida dell’Olivetti, che la tecnologia è il migliore alleato che una donna possa avere. È d’accordo?

Completamente. Potrei anche chiosare dicendo che le donne sono il migliore alleato della tecnologia.

Si spieghi meglio.

Il termine tecnologia è femminile, e questa è una battuta. Ma potrei dire che esiste una consolidata abilità del pensiero femminile all’implementazione tecnologica, e di cui troppo poco si tiene conto. Pensiamo anche solo alla figura più convenzionale della casalinga abituata a usare la tecnologia, a ripararla se ce n’è bisogno. Le donne devono semplicemente essere messe nelle condizioni per sviluppare un talento che è molto più femminile di quanto si creda, e che potremmo chiamare una "naturale" vocazione alla praticità, al fare. Di questo la tecnologia può godere molto. Soprattutto se pensiamo che finora è stata cosa di maschi e di pochi, un limite grave per la cultura tecnico-scientifica. 

Sappiamo che nel prossimo futuro l’80% dei lavori chiederà competenze digitali e che le donne che in tutto il mondo al momento hanno accesso alle tecnologie sono 250 milioni in meno degli uomini. Secondo lei la rivoluzione digitale in corso rafforzerà o indebolirà la presenza delle donne nel mercato del lavoro?

L’impressione è che la rivoluzione digitale possa facilitare l’avvicinamento delle donne alla tecnologia. Penso alla banale questione della forza fisica che si poneva come motivazione alla base del divario di genere nella società fordista seguita alla rivoluzione industriale. Nel momento in cui si passa dalla catena di montaggio alla rete di menti pensanti questo argomento viene meno. La rivoluzione digitale ha bisogno di intelligenza e le donne ne hanno da vendere, nonostante per ostacoli prevalentemente culturali ancora non ingrossino le fila dei laboratori e dei corsi di scienza e tecnologia.

Qual è il tipo di uditorio che segue le sue lezioni al Politecnico, ci sono molti maschi? 

Insegno prevalentemente a uomini, e non è un caso che l’università italiana soprattutto nelle materie tecnico scientifiche conti su una prevalenza maschile, che a livello di carriere supera il 90% tra i professori ordinari che insegnano materie tecniche. Perciò, la presenza delle donne in generale in questo settore è davvero minima. A ingegneria dei materiali arriviamo a un 25-30% per la laurea di primo livello: una presenza discreta se confrontata con corsi ancora più tecnici come ingegneria meccanica dove le ragazze arrivano sì e no a un 10%, bassa se consideriamo le ingegnerie più orientate all'economia, come l'ingegneria gestionale, dove le donne sono molte di più. A design, le donne che si iscrivono al primo anno arrivano al 50% e a volte lo superano, si perdono un po' con la laurea di secondo livello tornando anche al di sotto del 30%. 

Cosa sa delle ragazze che frequentano i suoi corsi: quali sono le loro aspirazioni, i loro progetti?

Come diceva il mio professore di fisica tecnica quando io studiavo ingegneria chimica ed eravamo in 3 su 200: le donne al Politecnico sono poche, ma quelle poche sono veramente buone. Diceva proprio buone, che è un aggettivo che io amo molto, perché per me significa prima di tutto valevoli, capaci. E io in tanti anni sono rimasta di questa opinione. Dobbiamo considerare che se una ragazza del 2018 si iscrive a ingegneria, le sue aspirazioni e la sua consapevolezza si muovono in una direzione ancora contraria rispetto a quello che la società si aspetta da lei. Siamo poche, ma veniamo chiamate a sfide più alte, e quindi dobbiamo affinare i nostri talenti con maggiore determinazione. Il che ci rende più forti. 

Parliamo di stampanti 3D. Oggi sono sulla bocca di tutti ma forse non tutti sanno come funzionano e soprattutto a cosa servono.

Una delle domande che mi sento ripetere più di frequente è proprio: ma precisamente a cosa serve una stampante 3D? E io rispondo con un aneddoto. Cinque anni fa quando ho cominciato a fare ricerca sulla manifattura additiva facevo dei corsi a bambini delle elementari, a una lezione venne anche mio nipote di otto anni. Decise di stampare un cubetto di lego da uno. Gli domandai perché avesse deciso di stampare proprio quell’oggetto. Mi rispose: perché mio fratello quando giochiamo me li perde tutti e poi quando mi servono non ce li ho. Beh, posso dire che mio nipote ha inventato la più bella definizione della stampa 3D. La stampa 3D serve a fare quello che serve quando serve, né prima né dopo, né di più né di meno. È l’esatto contrario di quello che finora ha fatto la tecnologia analogica: questo tipo di tecnologia produce sempre per analogia a uno stampo e per ammortizzare i costi di questo stampo deve produrre molto di più di quello che serve e deve farlo su grandi scale – milioni di bottigliette, milioni di cover sempre tutte uguali – in questo modo include già in sé l’idea di spreco. 

Guardando i progetti di ricerca che ha coordinato sembra invece che le tecnologie digitali possano avere una forte vocazione sociale anche in termini di inclusione. Come?

L’ambizione è di avvicinare le cose alle reali necessità dell’utente. Da qui l’idea del "prosumer" – producer e consumer – l’utente diventa in parte produttore, si affeziona all’oggetto perché lo fabbrica nel momento in cui gli serve, ed è possibile che questo generi in lui un’attenzione maggiore nell’occuparsene. È un modo diverso di intendere la manifattura all’interno della società. Il progetto +Ability nato all'interno del laboratorio +Lab, ad esempio, consente di portare in laboratorio persone con abilità differenti e superiori alle nostre. Non c’è nessuno che più di un non vedente possa sapere qual è la soluzione a una sua esigenza quotidiana, lo conferma la nostra esperienza con Laura, una ragazza straordinaria che ha frequentato il laboratorio, così come quella con le donne con diabete o con artrite reumatoide che hanno partecipato – e i dati ci dicono che 4 volte su 5 è una donna ad ammalarsi di malattie reumatoidi. Qui la tecnologia si allea in maniera squisita con i bisogni e con i desideri. Le stampanti sono piccole, facili, potano in sé l’idea di gioco, quasi di magia. 

E i costi?

Ci sono stampanti da tavolo, ad esempio quelle da autocostruire in kit, che possono costare meno di 600 euro, la metà di uno smartphone di alta qualità. Quelle più automatizzate si tengono di solito al di sotto dei 2mila euro, e non superano il costo di un computer portatile di buona qualità. 

Dove sta secondo lei il nesso tra scienza e arte, in che modo le tecnologie più recenti possono cambiare il mondo? 

Beh, tutto parte dal disegno, e il disegno ha bisogno di visioni e di persone visionarie. Se consideriamo che tutto quello che ci circonda è pensato a misura di stampo, vuol dire anche che ha dei limiti molto forti: si pensi solo al fatto che le forme non devono avere delle sporgenze perché altrimenti lo stampo non si apre. Adesso le nuove tecnologie permettono di superare questi vincoli e soltanto i nativi e le native digitali – che collocherei anagraficamente intorno agli anni 90-95 – sembrano rendersene pienamente conto. Gli altri sono stupidamente ostili, oppure fanno fatica. Abbiamo davvero bisogno di una rivoluzione.

Ci racconta qual è stato il suo percorso, com’è diventata una scienziata dei materiali?

Da piccola volevo fare la maestra. Al liceo ero brava, mi dicevano che avrei potuto studiare filosofia, insegnare. Sono state due donne a trasmettermi l’amore per la scienza e per la tecnologia, due insegnanti che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso. La prima è stata la mia professoressa di chimica del liceo, le sue lezioni mi facevano impazzire di gioia. Così da Catania mi sono spostata a Milano, ero indecisa se iscrivermi a chimica o a ingegneria chimica. Allora andai a parlare con i professori che facevamo orientamento e in quell'occasione incontrai una docente conosciuta per il suo carattere determinato, la chiamavano “la tigre”. Mi disse che a ingegneria avrei potuto fare grandi cose. Da lì mi iscrissi al Politecnico, dove mi sono laureata, dottorata e dove da oltre trent'anni insegno con la stessa passione del primo giorno. È stato un percorso che mi ha richiesto una certa dose di resistenza. Nel mio curriculum porto con orgoglio dieci anni da tecnico di laboratorio, sono il segno della mia dedizione alla ricerca. Negli anni Ottanta, come oggi, non c’erano tante risorse per l’università, e io ho saputo aspettare. A quarant’anni sono diventata ricercatrice e a quarantasette professore ordinario. Tutto mentre in Italia la chimica moriva. Mi dicevano di andare all’estero, ma ho resistito, perché pensavo, e lo penso tutt'ora, che qualcuno qui deve pur restare.

Cosa direbbe alle ragazze che oggi vogliono intraprendere una carriera nel settore delle scienze e delle tecnologie?

Tenete duro, è un settore meraviglioso e difficile. L’Università italiana sta vivendo un momento di crisi molto forte, si respira una sfiducia diffusa, soprattutto quando parliamo di scienza e tecnologia. Intraprendere una carriera in questo settore allora è quasi un dovere per chi ne possiede le doti. Anche perché alla fine c’è solo una cosa che ci salva, studiare. I nostri talenti vanno via perché in Italia non c’è posto per loro, e perché all’estero sono molto richiesti, li prendono ad Harward, a Cambridge, ad Oxford. Spesso sono riconosciuti tra i migliori al mondo. Non dovremmo dimenticare che si sono formati qui, significa che il nostro è un sistema d’eccellenza. Oggi alle ragazze dico: volete fare un’esperienza all’estero? Fatela. Fatela presto. Ma appena potete, tornate. Che qui c'è tanto da fare.