Ilaria Boiano, avvocata, da anni è impegnata nella difesa dei diritti delle donne nel processo penale e nell'assistenza alle migranti e richiedenti asilo. In un'intervista ci racconta come uno sguardo femminista sulle migrazioni potrebbe cambiare il mondo
Ilaria Boiano è avvocata specializzata nella difesa dei diritti delle donne nel processo penale e nell’assistenza alle donne migranti e richiedenti asilo. Coniuga la pratica forense con l’attività di studio e ricerca sul femminismo giuridico. Fa parte dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna, Ong presso cui svolge anche attività di ricerca socio-giuridica nell’ambito di progetti europei e internazionali. Ha conseguito il dottorato di ricerca in legge penale e diritti della persona presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Ha fondato, insieme ad Anna Simone e Caterina Peroni l'atelier di ricerca di sul Femminismo Giuridico e coordina, con Anna Simone, il Modulo Diritto/Diritti/Giustizia del Master in Studi e politiche di genere presso l'Università Roma Tre. È autrice di saggi e ricerche su femminismo e diritto, tra cui Femminismo e processo penale (Ediesse, 2015) e la ricerca GAPS-Gendering asylum protection system, finanziata dal Feminist Review Trust (2016). L'abbiamo intervistata.
In cosa consiste il tuo lavoro di tutti i giorni e come si svolge?
Le mie giornate si dividono tra l’assistenza processuale, i colloqui con le donne nei centri antiviolenza e negli sportelli dell’associazione Differenza Donna, il lavoro con le mie compagne-socie dello studio legale, l’attività di ricerca e i tanti luoghi e momenti di condivisione politica. Insomma, mi diverto.
Come hai deciso di diventare un'avvocata specializzata in diritto penale attenta in particolare alle donne e alle migranti? Da dove nasce la tua passione?
Gli studi giuridici mi hanno da subito molto appassionato, perché vi scorgevo la possibilità di dotarmi di strumenti utili a dare un mio contributo concreto al miglioramento della società. Sia il percorso di studi sia l’avvio alla professione forense mi sono però apparsi monchi e parziali finché non ho scoperto il femminismo. Come tante della mia generazione, mi sono formata nella convinzione di essere nata “uguale” per legge e che non avevo bisogno del femminismo, fino a quando non ho scoperto che la manchevolezza provata derivava proprio dalla necessità di altre genealogie. E così ho cominciato la mia ricerca di senso resa possibile a partire dalla Casa internazionale delle donne di Roma, dove ho avuto modo di posizionarmi alla “giusta distanza dal mondo e dalle idee per poter guardare il mondo e le idee finalmente con i miei occhi” e attraverso quelli di tante altre donne, studiose e ricercatrici, conosciute attraverso le loro pubblicazioni, durante corsi e seminari e nella pratica politica sperimentata all’interno dell’associazione Differenza Donna. Qui ho iniziato la pratica forense in ambito penale, quello dove più che in ogni altro dell’ordinamento le donne sono state storicamente oppresse, con la guida dell’avvocata Teresa Manente e da lei e altre attiviste dell’associazione (in particolare il mio debito di relazione è forte nei confronti di Emanuela Moroli, Elisa Ercoli e Rossella Benedetti) ho avuto il riconoscimento necessario per sentirmi forte abbastanza per agire anche in altri contesti. Il diritto dell’immigrazione e della protezione internazionale attualmente costituisce il confine interno che divide i soggetti di diritto dagli/dalle escluse e ho voluto approfondire questa materia perché penso che l’esperienza di cambiamento prodotta dalle donne che accedono alla giustizia penale possa contribuire a svelare i dispositivi di controllo e coercizione all’opera nei confronti di coloro che attraversano le frontiere “senza autorizzazione”.
Cosa significa per te lavorare in una prospettiva di genere? Esiste una metodologia femminista?
Lavorare da un posizionamento femminista significa per me essere innanzitutto consapevole dei limiti del diritto quando è in gioco la libertà femminile, come mi insegna un altro mio riferimento che è Anna Simone, che mi ha aperto la strada per un’attività di studio e ricerca femminista. La libertà femminile, infatti, che rischia di essere ulteriormente compressa nei meandri dei codici se non si pone come orizzonte di azione (anche processuale) quello della relazione. Ho imparato così, attraverso scacchi personali e arretramenti, che l’unico modo per prendermi carico della voce delle altre, per ritornare all’etimologia della parola avvocata, senza la presunzione di parlare al posto di qualcuna, è partire costantemente da me, dai miei limiti e dalle mie forze, con la consapevolezza però che da sola posso spostare ben poco, perché le mie competenze tecniche non bastano se non inserite in una narrazione reciproca dell’esperienza e dispiegate in una dimensione collettiva. Non so se questa possa essere definita una metodologia, però è l’unica prospettiva nella quale trovo un senso di autenticità della pratica del diritto.
Da anni stiamo assistendo a quello che più volte è stato definito uno "sterminio di massa", migliaia di morti in mare, campi di detenzione. Cosa non ha funzionato nel modello di giustizia voluto dall'Europa?
Dinanzi a ciò che accade sotto i nostri occhi nel Mediterraneo diviene oggi difficile anche solo pronunciare la parola giustizia. I corpi di donne e uomini migranti respinti, rimossi, annegati ci indicano che le libertà fondamentali su cui si è costruito il progetto europeo sono solo un lontano simulacro per tutti e tutte al di là e al di qua dei nuovi muri che rigano il globo. Sono convinta però che a partire dalla prospettiva femminista possa generarsi un gesto di ribellione efficace per togliere alla frontiera il potere di escludere, recuperando una dimensione compatibile con la molteplicità dell’esperienza umana. La frontiera deve ritornare ad essere un paesaggio nel cui orizzonte si pratica l’incontro, lo scambio e l’attraversamento, uno spazio di natura relazionale.
In che modo uno sguardo femminista può aiutare nelle ridefinizioni?
Il femminismo può farsi carico di ridefinire l’appartenenza a partire proprio dalle biografie femminili: la cittadinanza imperfetta delle donne si incontra alla frontiera con le molte imperfette cittadinanze dei e delle migranti restituendoci il valore di ciascuna persona al mondo, nominando come tale la violenza istituzionale che vivono sulla propria pelle coloro che tentano di attraversare la frontiera che separa il Sud dal Nord del mondo. Inoltre, è a partire dalle biografie che si può superare un approccio che “riduce a oggetto”: ripercorrendo le storie delle donne che attraversano le frontiere emerge, infatti, una molteplicità di corpi desideranti, contraddistinti da un’irriducibile appartenenza a reti relazionali che non si fanno imbrigliare dalle classificazioni giuridiche (migranti economici, richiedenti asilo, ecc.). Alla frontiera non ci sono più masse indistinte di individui, la cui sorte non interessa a nessuno e per questo sono più o meno “legalmente” rimossi, respinti e annegati, bensì “dividui/e”, per riprendere un conio di Emma Baeri Parisi che così ha rinominato le donne, uniche a sperimentare una soggettività per natura potenzialmente in relazione: ciò significa che alla frontiera giungono figli/e di madri che, a loro volta, hanno a cuore il destino dei propri figli e che, nell’attraversare le frontiere, sono pronte a porsi “sopra la legge” dei muri e dei confini.
C'è qualcosa che più di altre senti di aver imparato dalle storie e dalle vite delle donne che hai sostenuto?
Ho imparato che le donne, quando trovano il riconoscimento da altre donne, sono capaci di grandi trasformazioni, di sé, delle relazioni e del mondo.
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